Trib. Aquila (ord.), 27 luglio 2005


R.G. n. 889/2005

Fall. n. 27/2003


TRIBUNALE DI L’AQUILA


IL GIUDICE DELEGATO

letti gli atti e i documenti del procedimento, a scioglimento della riserva di cui al verbale dell’udienza di comparizione personale delle parti ai sensi dell’art. 669-sexies c.p.c. del 20.7.2005

OSSERVATO


[1] che preliminarmente deve esaminarsi quanto dedotto in relazione alla non persistenza in capo al giudice delegato del potere di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F. tanto alla luce della disciplina del procedimento cautelare uniforme quanto dell’ordinamento costituzionale;

che, in relazione al procedimento applicabile in ordine alle «opportune misure cautelari» che il giudice delegato può disporre ex art. 146, ultimo comma, L.F., v’è una compatibilità parziale della disciplina del rito cautelare uniforme per cui, da un canto, la riforma non ha inciso sulla competenza del giudice delegato, né sulla possibilità di disporre ex officio il sequestro contestualmente all’autorizzazione all’azione richiesta dal curatore; dall’altro, al decreto emesso inaudita altera parte deve seguire, a garanzia del contraddittorio, l’udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto, ai sensi del comma secondo dell’art. 669-sexies c.p.c. (cfr., tra le ultime, Trib. L’Aquila, ord. 11.8.2004, in Riv. dir. fall., 2003, II, p. 547 e segg.); infatti, come osservato in dottrina, la norma dell’art. 146, ultimo comma, L.F. non attiene alla competenza, ma piuttosto è attributiva di uno speciale potere, che viene attribuito al giudice delegato per la piú completa cognizione dei termini di fatto di tutte le problematiche attinenti la tutela cautelare delle ragioni creditorie, che, senza dubbio alcuno, questi è, per la funzione ricoperta e per la previa cognizione della procedura di fallimento, assai piú in grado di svolgere rispetto al giudice designato per il procedimento cautelare;

che l’istanza del curatore non ha valenza, quindi, di vero e proprio impulso di parte, e tanto meno di domanda in senso stretto, ma di mera segnalazione al giudice delegato, il quale esercita d’ufficio il potere cautelare utilizzando la stessa segnalazione del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso, contrariamente da quanto ritenuto da alcuni resistenti (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata dalla difesa di Piero Irti in data 8.6.2005; cfr. pag. 1 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Luigia Irti);

che la norma di cui all’art. 146, ultimo comma, L.F. è stata poi ritenuta conforme al dettato costituzionale, in particolare con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., e quest’ultimo anche nel testo novellato (il “giusto processo”, rispetto al quale dubita della conformità la resistente Luigia Irti: cfr. pag. 2 della memoria difesiva depositata in data 2.7.2005), risultando contemperata, nel rispetto del valore costituzionale del diritto di difesa, la competenza funzionale attribuita al giudice delegato e l’esigenza del giusto processo (cfr. Corte cost. 8.5.1995, n. 148; Corte cost. 31.5.2001, n. 176; Corte cost. 7.5.2002, n. 168);

che, inoltre, e per mera completezza (sebbene nessuna censura al riguardo sia stata formulata dai resistenti), l’art. 146 L.F. è del tutto compatibile con gli artt. 23 e 24 del D. Lgs. 17.1.2003, 5;

che, inoltre, parimenti deve essere disattesa la censura – mossa da tutti i resistenti – secondo cui nella relazione del Curatore mancherebbe l’indicazione analitica delle condotte omissive e/o commissive imputate a ciascun singolo amministratore (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti; pagg. 11 e 13 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 da Stefano Fogliata): infatti, il comando cautelare ex art. 146, ultimo comma, L.F. rientra nella discrezionalità del giudice delegato, e dunque non rileva la mancata allegazione da parte del curatore, che chiede l’autorizzazione alla proposizione dell’azione di responsabilità, degli elementi fatto e di diritto fondanti l’azione stessa e la concessione del sequestro, ed anche ciò non implica lesione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

che, peraltro, tale censura appare priva di fondatezza considerando – come si dirà di seguito – l’atteggiarsi della responsabilità di ciascun consigliere, almeno in relazione alla condotta omissiva;

[2] che, seppure solo per opportuna completezza, quanto all’accesso al fascicolo del fallimento, è orientamento di questo G.D. che sia esplicitamente consultabile tutto ciò che non sia esplicitamente individuato come riservato; in particolare, in relazione al Fallimento della Irti Lavori S.p.A., che consta ormai di diverse centinaia di istanze al G.D., si è provveduto all'individuazione delle relazioni e delle istanze del Curatore da ritenersi riservate, predisponendo un elenco, a disposizione della Cancelleria (che custodisce il fascicolo e che, dunque, deve rilasciare le copie): infatti, sulla scorta di detto elenco, è stato autorizzato a trarre copia il resistente Iniseo Irti, come documentato in atti;

che, al contempo, però, non è stata rigetta l'istanza di Mauro Irti, poiché con la stessa si è domandato il rilascio di copia di documentazione (verbali di assemblea e del C.d.A.) che non fatto parte del fascicolo del Fallimento, ma sono custoditi presso la sede sociale dal Curatore, a cui dunque andava piuttosto chiesta copia;

[3] che parimenti non può essere accolta l’eccezione di nullità del decreto di sequestro inaudita altera parte, poiché lo stesso sarebbe stato notificato oltre il termine perentorio di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies c.p.c., come dedotto dal resistente Mauro Irti (cfr. pag. 11 e 12 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, in verità, la notificazione del decreto di sequestro deve ritenersi avvenuta nel termine di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c.;

che, come rilevato dalla difesa della Curatela, per valutare l’avvenuto rispetto del termine previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. deve considerarsi il momento in cui copia del decreto viene consegnata all’ufficiale giudiziario per la notificazione, non quello in cui lo stesso viene effettivamente ricevuto dal sequestrato; nel caso in esame, dunque, la notificazione si è perfezionata per il sequestrante negli otto giorni a decorrere dal deposito in cancelleria del decreto di sequestro di questo G.D., avvenuto in data 13.5.2005: infatti, l’istanza del Curatore e il decreto del G.D. sono stati consegnati all’ufficiale giudiziario per la notifica in data 20.5.2005, e tanto è sufficiente per il rispetto del termine, anche laddove si riferisca la perentorietà senz’altro ad un termine «non superiore a otto giorni», e non al termine comunque assegnato dal giudice all’istante (cfr. pag. 7 della memoria difensiva del Fallimento depositata in data 2.7.2005);

che a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 447/2002 e n. 28/2004, nonché n. 69/1994 e n. 358/1996, costituisce ormai principio del ordinamento processuale quello secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve essere distinta da quello in cui essa si perfeziona per il notificato; in particolare, la regola generale della distinzione dei due momenti va desunta da quella espressamente prevista dall’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo posta e, conseguentemente, applicata anche alla notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario, sicché anche quest’ultima notifica si perfeziona, per il notificante, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (cfr., Cass. civ., S.U., 26.7.2004, n. 13970; Cass. civ., Sez. L, 28.6.2004, n. 11995); la Suprema Corte ha chiarito che la certezza della data di consegna dell'atto notificando non si può affidare ad una dichiarazione di parte, né ad un'indicazione temporale che, pur contenuta nel documento, sia priva di qualunque riferimento idoneo ad individuare l'autore e ad esplicare la finalità, ma può configurarsi, ad esempio, attraverso la produzione della ricevuta rilasciata ai sensi dell'art. 109 del D.P.R. 15.12.1959, n. 1229 dall'ufficiale giudiziario dell'incarico affidatogli, ovvero dell'attestazione da parte dello stesso pubblico ufficiale circa la data di ricezione dell'atto medesimo (cfr. Cass. civ., Sez. V, 29.9.2005, n. 19508; Cass. civ., Sez. V, 2.9.2004, n. 17714);

che, pertanto, nel caso all’esame di questo Giudicante, il perfezionamento per il notificante è avvenuto il 20.5.2005, come documenta l’attestazione dell’ufficiale giudiziario di ricezione dell’atto per la notificazione (e contestuale liquidazione delle spese di tale attività), apposto in calce a tutte le relate di notifica effettuate in seguito (cfr. atto n. 1 del fascicolo della Curatela);

che, peraltro, e come rilevato dalla stessa Curatela, del pari controversa è, nell’ipotesi di concessione della cautela inaudita altera parte, l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la notifica del ricorso e del decreto: infatti, per parte della dottrina si identifica senz’altro con il deposito in cancelleria del decreto, che non dovrebbe essere oggetto di comunicazione al ricorrente, il quale quindi sarebbe onerato di controllare nella cancelleria del giudice l’esito della propria domanda;

che, tuttavia, se tale opinione è comunque criticabile per le conseguenze che ciò determina per il ricorrente nelle ipotesi in cui la concessione della cautela con decreto sia stata domandata dal ricorrente, il quale quindi potrebbe – nella prospettiva della dottrina sopra richiamata – essere onerato dal verificare che il giudice abbia provveduto sulla sua domanda, non può essere assolutamente condivisa nell’ipotesi in esame, in cui una domanda della Curatela non solo in concreto non v’è stata, ma neanche è giuridicamente prospettabile, come si è detto ampiamente sopra; in altri termini, non si vede come possa farsi decorrere dal deposito in cancelleria il termine per la notificazione di un decreto di sequestro che venga adottato dal giudice delegato nell’esercizio di un potere officioso, quale quello di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F.;

che, conseguentemente, e come ritenuto da altra parte della dottrina, il termine decorre piuttosto dalla comunicazione al sequestrante, o comunque dal momento in cui sia documentato che lo stesso abbia avuto conoscenza del provvedimento in parola; nel caso di specie, dunque, il termine decorre con la presa visione da parte del Curatore, e quindi dal 18.5.2005 (come documentato in atti); a ben considerare, infatti, il termine in parola non può neanche essere fatto decorrere dal 16.5.2005, data in cui l’Avv. Manferoce ha preso visione del provvedimento in parola (quale provvedimento equipollente alla comunicazione: cfr. Cass. civ., Sez. I, 16.7.2004, n. 11319; Cass. civ., Sez. II, 29.4.2002, n. 6221): infatti, il G.D. ha nominato un difensore alla Curatela perché l’assista nella fase di conferma del decreto, mentre il difensore nominato è estraneo (non solo all’adozione del decreto, cui – come si è detto – è, a ben vedere, “estraneo” lo stesso Curatore) all’attività volta a determinare l’efficacia della misura, che è rimessa piuttosto al Curatore successivamente alla comunicazione dell’adozione del provvedimento: vale a dire che la notificazione del decreto ai sequestrati è attività che spetta al Curatore, e non al difensore nominato per la fase di conferma del sequestro, sebbene in concreto possa essere svolta da quest’ultimo (come, appunto, nel caso di specie); anche perché, in realtà, nella struttura propria del procedimento in parola, non ancorato alla domanda di parte, la Curatela non costituisce tecnicamente la parte ricorrente, e quindi ben potrebbe non spiegare alcuna difesa nella fase di conferma, ossia il G.D. potrebbe anche non nominare un difensore per detta fase, che quindi potrebbe non esserci, al contempo però dovendosi provvedere alla notificazione del provvedimento;

[4] che infondato è il rilievo – poiché non di eccezione si tratta, ma essendosi in sede cautelare, di deduzione rilevante ai fini della valutazione del fumus boni iuris – di prescrizione dell’azione di responsabilità, formulata dal resistente Vincenzo Lamparelli (cfr. pagg. 1-3 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005);

che, preliminarmente, è opportuno rilevare che non risponde al vero che la Curatela ha domandato di essere autorizzata ad esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori in carica dal 1997, come invece afferma il Lamparelli (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005): la lettura della relazione del Curatore in data 11.5.2005 evidenza come l’istanza abbia ad oggetto l’autorizzazione ad agire nei confronti degli amministratori in carica dall’esercizio 2000 in poi, pur riportando il dato che dal 16.10.1997 al 31.7.2002 gli stessi soggetti hanno rivestito la carica di consigliere (cfr. pag. 22 della relazione);

che, ciò opportunamente premesso, in primo luogo, deve rilevarsi – come fa la Curatela (cfr. pag. 9 della memoria difensiva del 1°.7.2005) – che il curatore del fallimento è il soggetto legittimato in via esclusiva anche all’esercizio dell’azione ex artt. 2392 e 2393 c.c., e – si aggiunga – il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 espressamente richiama anche dette disposizioni, sicché appare evidente come nel caso di specie alcuna prescrizione può essersi verificata: ai sensi dell’art. 2941, n. 7, c.c., infatti, il decorso del termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità è sospeso finché gli amministratori o i sindaci destinatari della pretesa risarcitoria sono in carica; orbene, Vincenzo Lamparelli è cessato dalla carica al tempo della dichiarazione di fallimento del 16.6.2003, sicché non può affermarsi essere maturato detto termine di prescrizione per l’azione di responsabilità nei confronti della Società;

che, in secondo luogo, anche con riferimento all’azione di responsabilità proposta dai creditori sociali, e quindi in caso di fallimento della società dal curatore, il termine di prescrizione quinquennale comincia a decorrere dal momento in cui il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti e può anche essere anteriore alla data dell’apertura della procedura concorsuale; l’onere di provare che l’insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento grava sull’amministratore (o sul sindaco) che eccepisce la prescrizione, e non può essere assolto mediante la generica deduzione, non confortata da utili elementi di fatto, secondo cui l’insufficienza patrimoniale della società fosse evidente al momento della chiusura dell'esercizio 1999, e quindi in un termine anteriore al quinquennio, poiché la perdita integrale del capitale sociale neppure implica la consequenziale perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 18.1.2005, n. 941); in particolare, detta insufficienza può risultare da qualsiasi atto che possa essere conosciuto anche senza verifica diretta sulla contabilità della società, non richiedendosi a tal fine che essa risulti da un bilancio approvato dall’assemblea dei soci (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.2004, n. 20637);

che il resistente Vincenzo Lamparelli si limita a rilevare che il bilancio relativo all’esercizio 1999 evidenziava un’esposizione debitoria per € 71.000.000,00 (cfr. pag. 2 della memoria depositata in data 8.6.2005), laddove la mera sussistenza di debiti (senza peraltro considerare che non necessariamente tutti erano esigibili dai creditori della società entro l’esercizio,ovvero entro l’esercizio successivo) non vuol dire che il patrimonio sociale all’epoca fosse insufficiente al pagamento degli stessi; ed in ogni caso ciò non è stato specificamente allegato;

che, quanto al caso in esame, il Curatore ha dedotto come la Società fallita versasse «in una situazione di grave insolvenza dalla seconda metà del 2001, atteso che già a quell’epoca la stessa non fosse in grado di far fronte con regolarità e con mezzi normali alle proprie obbligazioni»; e, soprattutto, di tale situazione avevano contezza gli amministratori allora in carica, avendo avanzato una proposta transattiva al ceto bancario, in data 20.12.2001, che prevedeva il pagamento del solo 45% dell'esposizione debitoria alla data del 30.9.1997, non garantita, assicurando l'integrale pagamento dei soli crediti privilegiati (cfr. pag. 7 della relazione depositata in data 11.5.2005); ma, in ogni caso, nessun ausilio al rilievo del resistente Lamparelli può essere rinvenuto nei bilanci della società e nei verbali dell'assemblea, non destinati alla pubblica diffusione e comunque inidonei a determinare tra i creditori quella necessaria obiettiva consapevolezza dell'esistenza di uno stato di insufficienza patrimoniale (cfr. Trib. Napoli, 16.4.2004, in Il Fallimento, 2005, p. 689);

[5] che, quanto alla responsabilità nei confronti della società, nel caso all’esame di questo G.D. deve trovare applicazione il testo dell’art. 2392 c.c. in vigore anteriormente alla riforma delle società di capitali operata con il D. Lgs. 17.1.2003, n. 6, in quanto le condotte sono state poste in essere nella vigenza delle disposizioni codicistiche, e non della novella, conformemente a quanto peraltro ritenuto dalla giurisprudenza; e su ciò, peraltro, le parti concordano (cfr. pag. 17 della relazione del Curatore; pag. 24 della memoria di costituzione del Fallimento; pag. 7-8 della memoria difensiva di Fogliata depositata in data 8.6.2005);

[5.1] che, al riguardo, l’art. 2392 c.c. (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003) impone a tutti gli amministratori un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno - come si evince dall’espressione “in ogni caso”, non ripetuta nel testo novellato - nell’ipotesi di attribuzioni all’Amministratore delegato, a meno che essi non forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, non abbiano potuto esercitare la predetta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio o dell’amministratore unico (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che, pertanto, per fondare la responsabilità dei singoli consiglieri di amministrazione non è necessario che gli stessi abbiano posto in essere «atti dolosamente preordinati alla riduzione del capitale sociale», come ritenuto da taluno (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005 da Piero Irti); né la contestazione di una condotta omissiva, quale quella che viene in rilievo ai sensi dell’art. 2392 c.c., può determinare – con tutta evidenza – la contestazione di fatti specifici, come invece ritengono i resistenti (cfr. pag. 2 della memoria difensiva della difesa di Piero Irti in data 8.6.2005 e pag. 3 della memoria depositata dalla stessa difesa il 1°.7.2005; pag. 6 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Stefano Fogliata);

che, pertanto, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, non determina di per sé alcuna esclusione di responsabilità del singolo consigliere di amministrazione che con la delibera del consiglio del 31.7.2002 all’Amministratore delegato Sandro Maccagni siano stati conferiti «tutti i poteri “nessuno escluso” di ordinaria e straordinaria amministrazione a firma libera ed individuale»; né – in particolare – che questi non relazionasse al Consiglio in occasione delle riunioni, e come pure gli è stato contestato da Luigia Irti durante la riunione del Consiglio del 27.1.2003 (cfr. pag. 5 della memoria della difesa di Lamparelli depositata l’8.6.2005; pag. 6 delle memoria difensiva depositata dalla difesa di Luigia Irti l’8.6.2005), ovvero che nelle sedute del C.d.A. cui avrebbero preso parte non venissero «trattati argomenti di rilievo dal punto di vista patrimoniale» (cfr. pag. 7 delle memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti), ovvero ancora che l’Amministratore delegato “plenipotenziario” nelle riunione del C.d.A. non facesse mai menzione «di alcuno dei fatti potenzialmente dannosi per la società» (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva di Luigia Irti dell’8.6.2005); in buona sostanza, gli amministratori, per sottrarsi alla responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., non possono addurre a loro giustificazione di non aver effettivamente preso parte all’amministrazione o di non aver avuto conoscenza della gestione (cfr. Trib. Milano, 13.6.1991, in Le Società, 1992, pag. 76);

che, quanto al controllo spiegato dal consigliere Luigia Irti, poi, vero è che la stessa ha consegnato in data 30.12.2002 una raccomandata a mano a Sandro Maccagni «contenente rilievi (del tutto significativi e decisamente pesanti) sulla gestione societaria» (cfr. pag. 6 della memoria difensiva dell’8.6.2005), circostanza di cui dà atto anche il perito del G.I.P., dott. Cosentino (cfr. pag. 51 dell’elaborato depositato nel procedimento penale, e prodotto dalle parti), ma è di tutta evidenza come tale attività - così come l’atto presupposto, ossia la lettera - non sia affatto idonea ad integrare l’esercizio di quei poteri di controllo che l’amministratore ha il potere/dovere di porre in essere, come si è detto sopra; né – e, in verità, in maniera assorbente – la stessa può integrare un dissenso giuridicamente rilevante: il dissenso dell’amministratore, che ai sensi dell’art. 2392, ultimo comma, c.c. consente il suo esonero da responsabilità, deve consistere necessariamente nell’annotazione nel libro delle adunanze e delle delibere del C.d.A. e nella comunicazione scritta al Presidente del Collegio sindacale (cfr. Trib. Sulmona, 21.9.1993, in Le Società, 1994, p. 635);

che, inoltre, non può ritenersi che la condotta diligente richiesta al singolo consigliere, nell’ipotesi di delega, sia «quella di chiedere notizie» (cfr. pag. 11 e 13 delle memoria difensiva di Luigia Irti del 8.6.2005): infatti, il comportamento ostativo dell’Amministratore delegato – cui fa riferimento la giurisprudenza di legittimità – non è certo ravvisabile semplicemente nel non aver fornito notizie sulla gestione sociale; peraltro, la dottrina evidenzia la persistenza dei poteri in capo all'amministrazione anche in caso di delega;

che, in particolare, è appena il caso di rilevare come nessuno dei resistenti deduca una condotta ostativa all’esercizio dei poteri si controllo posta in essere da Iniseo Irti prima, e quindi – dal 31.7.2002 – da Sandro Maccagni; anche in relazione a tale amministratore delegato, a ben vedere, è stato dedotto un comportamento tale da determinare quell’impotenza dell’esercizio dei poteri del singolo consigliere, tale non essendo certo sic et simpliciter quello di non fornire le informazioni richieste;

che Vincenzo Lamparelli, che pure ha contestato che lo stesso avesse l’effettiva possibilità di controllo dell’operato del Maccagni, non ha però dedotto una condotta dell’Amministratore delegato che in concreto avrebbe impedito l’esercizio del controllo; allega piuttosto di aver chiesto a Maccagni «spiegazioni in merito alla ricapitalizzazione della società», per ricevere la tranquillizzante risposta dell’Amministratore delegato «che l’accordo con le banche era stato sostanzialmente raggiunto e che “i soldi erano già disponibili”» (cfr. pag. 5 della memoria difensiva dell’8.6.2005) e in piú occasioni «rassicurazioni sulla corretta gestione e sul buon andamento delle operazioni finanziarie» (cfr. pag. 4 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005), e quindi – in buona sostanza – di essersi fidato dell’Amministratore delegato e, per ciò solo, ammette di aver omesso l’esercizio dei loro poteri/doveri di controllo; e questa è anche la ragione giustificativa dell’omesso controllo dedotta da Stefano Fogliata (cfr. pagg. 14-17 memoria depositata l’8.6.2005), per il quale valgano le stesse considerazioni appena svolte;

che, in particolare, il consigliere di amministrazione Lamparelli non può dedurre che allo stesso nulla si può imputare per essersi fidato delle capacità finanziarie di Sandro Maccagni, laddove anche la famiglia Irti e il Collegio sindacale non hanno sospettato alcunché (cfr. pagg. 16 e 17 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005); così come l’essersi fidati – anche sulla scorta che dello stesso si siano fidati terzi ben piú “attrezzati”, quali (almeno in un primo momento) la CARISPAQ S.p.A. e i rappresentanti degli Enti locali – non è esonero responsabilità da parte di un soggetto che, per espressa previsione di legge, proprio in considerazione degli strumenti di controllo che gli sono riconosciuti, è chiamato a rispondere solidalmente laddove non li eserciti;

che, inoltre, proprio in considerazione dell’atteggiarsi della responsabilità del singolo componente del consiglio di amministrazione, è di tutta evidenza come non possa fondarsi una valutazione di diligente assolvimento del proprio incarico, ai fini dell’esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., riguardando esclusivamente alla delega “di fatto” allo stesso conferita; conseguentemente, Lamparelli non può dedurre, al fine di escludere la propria responsabilità per l’operato di Maccagni, che la propria posizione andrebbe «analizzata alla luce dell'esatta individuazione delle prestazioni professionali svolte dallo stesso in favore della fallita e fatturate dalla CECAD s.r.l. e non può rientrare nel quadro generale dell'azione di responsabilità» (cfr. pag. … della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

[5.2] che deve comunque escludersi che i componenti del consiglio di amministrazione possano invocare esenzione da responsabilità in riferimento ad addebiti concernenti la redazione del bilancio di esercizio, che costituisce un atto che involge la responsabilità dell’intero organo collegiale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che il Curatore rileva come gli amministratori – tutti gli amministratori che si sono succeduti dall'esercizio 2000 al 16.6.2003 (data di dichiarazione del fallimento) – abbiano posto in essere una «protratta e sistematica violazione delle regole poste in tema di redazione del bilancio di esercizio, con la ingiustificata valutazione di alcune poste», ed in particolare nella violazione dei principi di verità e correttezza, «preordinato al fine di celare lo stato di insolvenza in cui già da tempo si trovava la Irti Lavori s.p.a.» (cfr. pag. 2 della relazione ex art. 33 L.F. depositata in data 11.5.2005);

che, in particolare, gli amministratori in carica negli esercizi dal 2000-2002 devono ritenersi – seppure in sede di cognizione sommaria, propria della presente fase – responsabili senz’altro della «lunga serie di irregolarità contabili e nella protratta e sistematica violazione delle regole di redazione del bilancio di esercizio» evidenziate dalla Curatela nella relazione;

che, in particolare, quanto a Maria Annunziata Chiarandà, dopo aver dedotto di aver votato contro il progetto di bilancio (e, quindi, in assemblea di non avere approvato il bilancio) relativo all’esercizio 1997, per quindi impugnare – si badi, in quanto socio della Irti Lavori S.p.A., e non certo in quanto amministratore – la delibera di approvazione del bilancio con atto di citazione del 24.9.1998, in relazione agli esercizi successivi la stessa deduce, in primo luogo, che «ha progressivamente diradato la propria presenza in consiglio in attesa di veder riconosciuta la correttezza delle censure formulate con la predetta impugnativa del bilancio» (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), condotta questa che senz’altro non costituisce atto di controllo dell’operato dell’amministratore delegato, nella persona del presidente del consiglio, l’Arch. Iniseo Irti: non si vede come il semplice non prendere parte alla predisposizione del bilancio da sottoporre all’approvazione dell’assemblea valga ad escludere la sussistenza della contestata condotta omissiva; in secondo luogo, la Chiarandà deduce di aver differenziato la propria posizione in seno al consiglio di amministrazione, «a volte astenendosi, altre esprimendo voto contrario», per poi elencare – unitamente ad ipotesi di mancata partecipazione, di cui già si è detto – solo dichiarazioni di astensione (cfr. pagg. 3 e 4 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), che parimenti non possono costituire l’esercizio dei doverosi poteri di controllo in seno all’amministratore;

che anche Luigia Irti, componente del consiglio di amministrazione della Società fallita dal 31.7.2003 al 21.2.2003, non può dunque invocare, ad esonero di responsabilità, di non aver partecipato all’approvazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 e di essersi astenuta durante la riunione del 27.1.2003 del C.d.A. dall’approvazione del progetto di bilancio predisposto (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, conclusivamente sul punto, pur nell’ambito della cognizione sommaria che è propria della presente fase, da quanto dedotto dagli stessi resistenti, ancor prima che da quanto documentato in atti, non può affermarsi che i consiglieri di amministrazione succedutisi nel periodo di tempo indicato dal Curatore abbiano messo in moto qualunque meccanismo necessario che gli avrebbe consentito di provvedere al controllo sulla gestione societaria, e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda (cfr. Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238);

[5.3] che nell’esclusione dall’esenzione da responsabilità affermata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla redazione rientra, ad avviso di questo G.D., anche la redazione del bilancio relativa all’operazione di copertura perdite che superino il terzo del capitale sociale: infatti, la relazione degli amministratori sulla situazione patrimoniale della società, prevista dagli artt. 2446 e 2447 c.c., avendo lo scopo di informare dettagliatamente i soci sulla reale situazione, in modo tale da consentire all’assemblea di deliberare consapevolmente, ove ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti previsti nelle richiamate disposizioni, deve essere redatta con criteri sostanzialmente uguali a quelli prescritti per il bilancio di esercizio (cfr. Cass. civ., Sez. I, 5.5.1995, n. 4923; Trib. Cosenza, 8.2.1994, in Le Società, 1994, pag. 1071); conseguentemente, la stessa deve ritenersi del tutto equiparabile – sotto il profilo della responsabilità che ne deriva – al bilancio di esercizio che gli amministratori devono redigere ai sensi dell’art. 2423, comma 1, c.c.;

che, conseguentemente, vero è che Stefano Fogliata – come ha dedotto (cfr. pag. 9 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005) – non ha approvato alcun bilancio di esercizio della Società fallita, ma la circostanza (in sé, peraltro tecnicamente sbagliata: il consiglio di amministrazione, infatti, non approva il bilancio, ma il progetto di bilancio, che quindi viene sottoposto all’assemblea per l’approvazione), non solo non rileverebbe, come si è detto sopra, ma - in particolare - non può ritenersi corrispondere al vero: infatti, se tale consigliere non ha partecipato a predisporre alcun bilancio di esercizio, alla luce di quanto si è rilevato sopra comunque risponde della redazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 approvato alla riunione del C.d.A. del 12.9.2002, sulla scorta della quale l'assemblea straordinaria dei soci, in seconda convocazione, ha deliberato l'azzeramento del capitale sociale e, quindi, la ricostituzione dello stesso nella misura di € 6.240.000,00 (cfr. doc. n. 33 del fascicolo di parte del Collegio sindacale);

che anche Luigia Irti non può chiamarsi fuori da detta operazione di ricopertura del capitale per perdite, poiché la stessa sarebbe stata deliberata dall’assemblea del 21.3.2003, alla quale la stessa non ha partecipato, «con ciò non assumendo la paternità di quanto il Presidente del CdA Maccagni, ha riferito e suggerito in quella sede» (cfr. pag. 8 della memoria difensiva dell’8.6.2005); la mera non partecipazione alla riunione consiliare non determina, dunque, l'esonero da responsabilità per detto atto che è del C.d.A., e comunque avendo dovuto la stessa attivarsi per far valere l’illegittimità di un atto di cui, invece, vigorosamente disconosce la paternità solo con il presente procedimento;

[5.4] che lo stesso valga con riferimento alla situazione patrimoniale al 31.8.2002, del tutto inveritiera, che presentava addirittura un utile di esercizio di periodo al 31.8.2002 di € 9.220.721,56, che gli amministratori hanno approvato nella riunione del C.d.A. del 12.9.2002, pur trovandosi la società – per loro stessa ammissione – nell’ipotesi di cui all’art. 2446 c.c., nel tentativo di procrastinare l’attività d’impresa;

che, in particolare, è opportuno rilevare come i componenti del consiglio di amministrazione in carica all'epoca non possono dedurre che gli stessi sono stati ispirati dall’intento di “salvataggio della società” (cfr. pag. 2 della memoria difensiva di Iniseo Irti depositata l’8.6.2005) o comunque per «risanare l’azienda» (cfr. pag. 9 della memoria difensiva di Maria Annunziata Chiarandà depositata l’8.6.2005); anzi, come rilevato dalla Curatela, tale comportamento deve essere valutato come una negligente scelta di avere voluto continuare a tutti i costi nella gestione dell’impresa, quando doveva ritenersi ormai non piú reversibile una situazione di crisi patrimoniale e finanziaria e nella consapevolezza dell’assenza e, comunque, del fallimento – sin dal 1999 – di un piano di ristrutturazione aziendale atto a rimuovere od ovviare, almeno parzialmente, alla situazione gravemente deficitaria che si era venuta a creare (cfr. pag. 14 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005);

che, infine, quanto alla sussistenza di un danno in relazione a tale loro condotta, è appena il caso di rilevare che è quantomeno singolare affermare che non vi sarebbe alcuna certezza della sussistenza di un danno per i creditori e per la Società dalla condotta degli amministratori (cfr. pag. 4 e 5 della memoria difesa Piero Irti depositata il 1°.7.2005);

[5.5] che per le violazioni commesse e già evidenziate gli amministratori sono chiamati, altresì, a rispondere nei confronti dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale; infatti, tali condotte hanno determinato l’insufficienza del patrimonio sociale, al cui verificarsi è subordinata l’esperibilità dell’azione di responsabilità da parte dei creditori, e quindi del curatore ai sensi del terzo comma del suddetto articolo, insufficienza che è nozione diversa e piú grave della mera insolvenza, che costituisce il presupposto della dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 6.10.1981, n. 5341);

che anche delle condotte distrattive compiute nel periodo successivo al 31.7.2002 e poste in essere da Sandro Maccagni, elencate dal Curatore nella propria relazione (cfr. pagg. 10-15 della relazione depositata in data 11.5.2005) – e di cui sono chiamati a rispondere, in solido con lo stesso, anche i componenti del C.d.A. in carica dal 31.7.2002 al momento della dichiarazione di fallimento (o, comunque, fino al momento in cui sono rimasti in carica; ed in tal senso si deve affermare la responsabilità – in sede civile – per le condotte distrattive anche di Luigia Irti, che pure si duole di tale imputazione: cfr. pag. 12 della memoria difensiva dell’8.6.2005), si rileva che le condotte distrattive evidenziate dal Curatore nella propria relazione hanno trovato conferma nella perizia svolta nel procedimento penale, ed in particolare in sede di incidente probatorio (cfr. doc. n. 1 del fascicolo del resistente Paolo Irti);

che, in sintesi, del tutto correttamente nella relazione depositata l’11.5.2005 il Curatore del Fallimento della Irti Lavori S.p.A. ha addebitato a tutti i consiglieri in carica le condotte distrattive poste in essere da Maccagni (cfr. pag. 24 della relazione depositata in data 11.5.2005); infatti, quello che si domanda al singolo consigliere non è certo che «seguisse tutti i giorni l’A.D. per controllare gli assegni che emetteva» (cfr. pag. 9 delle memoria difensiva del 8.6.2005 di Luigia Irti), ma che esercitasse i poteri di controllo in ordine alla gestione di cui si è detto sopra;

[5.6.] che, inoltre, tutti i componenti del consiglio di amministrazione della Società fallita sono responsabili in solido per la violazione di detto obbligo di vigilanza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110; Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238; ); conseguentemente, priva di pregio è la richiesta graduazione dell’importo in relazione al quale è stato concesso il sequestro con riferimento alla condotta tenuta da ciascun consigliere, considerando piú benevolmente le posizioni ritenute “marginali”;

che, inoltre, dei danni arrecati alla società dai precedenti amministratori, per aver occultato il dissesto della società una volta che del dissesto stesso erano venuto a conoscenza, risponde anche il C.d.A. subentrato il 31.7.2002, avendo i nuovi amministratori omesso di eliminare gli illeciti commessi da chi li ha preceduti o di attenuare le conseguenze dannose derivatene (cfr. Cass. civ., Sez. I, 27.2.2002, n. 2906; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1998 n. 3483); e così Stefano Fogliata non può certo invocare la esenzione di responsabilità per le condotte poste in essere dai precedenti amministratori (cfr. pag. 10 e pag. 26 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), e tanto meno - in considerazione del dedotto vincolo solidale - può ritenersi responsabile esclusivamente del danno che egli stesso avrebbe provocato;

che, inoltre, non è possibile ritenere che del danno verificatosi nel corso di una determinata gestione della stessa non possa essere chiamato a rispondere l’amministratore che sia cessato dalla carica prima della data di chiusura dell’esercizio (cfr. pag. 3 della memoria difensiva di Piero Irti depositata l'8.6.2005): infatti, è di tutta evidenza come il danno non si realizzi al momento della chiusura dell’esercizio, piuttosto essendo il bilancio relativo a detto esercizio (e che, quindi, normalmente va dal 1° gennaio al 31 dicembre) ad evidenziare contabilmente ad una determinata data detta perdita;

[6] che anche in relazione ai componenti del collegio sindacale trova applicazione ratione temporis il testo dell’art. 2407 c.c. vigente prima delle rilevanti modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003;

[6.1] che, ai fini della responsabilità solidale dei sindaci di una società per azioni con gli amministratori, ex art. 2407, comma 2, c.c., per i fatti e per le omissioni di questi ultimi (cfr. anche Cass. civ., Sez. I, 15.5.1991, n. 5444), quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità con gli obblighi della loro carica, l’obbligo di vigilanza dei sindaci non è limitato allo svolgimento dei compiti di mero controllo contabile e formale, ma si estende anche al contenuto della gestione, atteso che la previsione della prima parte del primo comma dell’art. 2403 c.c. va combinata con quelle del terzo e quarto comma del medesimo articolo, che conferiscono al collegio sindacale il potere – che è anche un dovere da esercitare in relazione alle specifiche situazioni – di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati fatti (cfr. Cass. civ., Sez. I, 7.5.1993, n. 5263);

che, come i componenti del collegio sindacale hanno assai puntualmente dedotto, gli stessi hanno senz’altro assolto all’obbligo di richiedere – costantemente, nel corso della loro durata in carica –agli amministratori, e all’Amministratore delegato Sandro Maccagni in particolare, notizie in relazione alla gestione sociale, sebbene – in verità – il loro controllo si sia incentrato prevalentemente su questioni inerenti al bilancio, e non anche - come sarebbe stato opportuno - alla gestione sociale (sebbene questa seconda non sia certo indifferente con riferimento alle prime);

che, tuttavia, la responsabilità del collegio sindacale non consegue esclusivamente all’espletamento a tale attività di controllo;

[6.2] che, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la mancata impugnazione da parte dei sindaci di una società di capitali delle delibera dell’assemblea, che approva un bilancio di esercizio redatto in violazione dei principi stabiliti dal codice civile, può fondare la loro responsabilità ex art. 2407 c.c., anche se essi abbiano assunto la carica soltanto in occasione della sua approvazione; il documento contabile è, infatti, destinato a spiegare i suoi effetti anche sull’esercizio successivo, mentre il controllo sull’osservanza della legge, al quale essi sono tenuti ex art. 2403 c.c., ha ad oggetto anche la legittimità delle delibere assembleari, specie se adottate all’esito di un procedimento nel quale si inseriscono precedenti atti degli amministratori, essendo peraltro espressamente attribuita ai sindaci la legittimazione all’impugnazione delle delibere assembleari (art. 2377 c.c.) (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, sebbene il collegio sindacale invitò l’assemblea dei soci a non approvare il bilancio relativo all’esercizio 2001, ma – come gli stessi sindaci rilevano – l’assemblea dei soci dell’8.7.2002 ha approvato il bilancio, nonostante detto parere contrario; l’organo di controllo, però, non ha - doverosamente ed opportunamente - impugnato detta deliberazione assembleare; nel corso di detta assemblea ha dedotto l’intenzione di provvedere a breve alla convocazione dell’assemblea per gli adempimenti di cui all’art. 2446, comma 1, c.c., ed è questa la “famigerata” assemblea del 31.7.2002, che vede l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Sandro Maccagni – che aveva già definito i propri accordi con la proprietà, in rappresentanza della quale siede in consiglio Luigia Irti – e i suoi "collaboratori" Raoul Pozzi, Stefano Fogliata e Vincenzo Lamparelli, ed il primo viene nominato Amministratore delegato; tale assemblea, però, come deducono i sindaci stessi, non delibera senz’altro di provvedere alla riduzione e ricostituzione del capitale sociale, ma si è limitata a prendere atto di detta necessità e del raggiungimento dell’accordo con il ceto bancario, ad eccezione della B.N.L. S.p.A., nei termini in cui ha riferito Maccagni;

che, se sussiste l’obbligo di impugnazione delle delibere assembleari potenzialmente dannose per i soci, a maggior ragione deve rilevarsi come i sindaci avrebbero dovuto impugnare tempestivamente la deliberazione di aumento del capitale sociale assunta all’assemblea del 21.2.2003, con cui è stato deliberato l’aumento del capitale sociale senza che il socio Maccagni provvedesse senz’altro al versamento contestuale: infatti, il collegio sindacale si è limitato a svolgere delle osservazioni a verbale circa detta necessità di sottoscrizione contestuale, mostrando così di essere consapevole dell’illegittimità di tale condotta, ma una volta che la stessa è stata disattesa – conformemente al parere espresso dal notaio verbalizzante – dall'assemblea dei soci, non ha provveduto senz’altro ad impugnare delibera, ma in data 29.5.2003 ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di L’Aquila denunciando la millantata e falsificata copertura delle perdite e la ricostruzione del capitale sociale successivamente accertata da detto organo (cfr. doc. n. 37 del fascicolo di parte), per poi rimettere una relazione al Tribunale soltanto il giorno in cui è stato dichiarato il fallimento della Società, pur essendo a conoscenza della pendenza già da qualche mese di numerose istanze di fallimento, tra cui quelle delle banche;

che è di tutta evidenza, dunque, come l’organo di controllo, pur avendo diligentemente ed in maniera penetrante esercitato i propri poteri di controllo della gestione, non ha invece esercitato quelli di controllo del rispetto delle legge (e dell’atto costitutivo), a tutela anche dei creditori sociali: quello che agli stessi si contesta da parte della Curatela non è, dunque, l’insuccesso del loro controllo, ma la mancata attivazione di ogni potere agli stessi a tal fine, quale ad esempio quello dell’impugnazione di detta delibera;

che, peraltro, l’esposto al Procuratore della Repubblica del 29.5.2003 – in prossimità dell’udienza ex art. 5 L.F. – appare quanto meno tardivo, se si considera che con sentenza pubblicata il 16.6.2003 il Tribunale di L’Aquila ha dichiarato il fallimento della Irti Lavori S.p.A. sulla scorta di istanze depositate già gli ultimi mesi del 2002;

che, poi, la difesa del collegio sindacale appare contraddittoria laddove, dopo aver puntualmente dedotto tutte le critiche mosse alla gestione sociale, volta a infirmare le bontà delle decisioni assunte, deduce quindi che «la scelta di procrastinare il ricorso a procedure concorsuali e di tentare un progressivo ritorno in bonis, rappresentava una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda», che avrebbe così giustificato la loro condotta di attesa e verifica degli adempimenti dell’amministratore delegato, anche a tutela dei creditori sociali (e, principalmente dei lavoratori) (cfr. pagg. 27-28 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005); in altri termini, dopo aver riferito di tutti i momenti in cui gli stessi avrebbero contestato la bontà ed attendibilità delle scelte gestionali, oltre che delle rappresentazioni contabili, affermano che però la loro condotta di soprassedere da atti "estremi", che avrebbero determinato la cessazione dell'attività della Irti Lavori S.p.A., è stata motivata dalla circostanza che quella che si prospettava ai loro occhi – fino al 29.5.2003, deve intendersi – era «una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda»;

che, quanto all’assemblea al 12.9.2002, che ha approvato una situazione patrimoniale al 31.8.2002 che rappresenta un utile di esercizio di € 9.220.721,56, la stessa non può dirsi in veritiera – come, invece, affermano i sindaci (cfr. pag. 20 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005): vero è, infatti, che «i titoli relativi alla riduzione per transazione dei debiti di natura bancaria erano ben esistenti, come sopra meglio trascritti e riferiti a un impegno di esecuzione molto prossimo, da definire entro il 7 novembre», tuttavia – come rileva lo stesso collegio sindacale – l’accordo non era stata eseguito, sicché non poteva essere senz’altro inserito in bilancio come se fosse stato eseguito, e quindi come se senz’altro le perdite ricoperte e la nuova finanza conseguente a detto accordo fosse senz’altro esistenti; d’altro canto, e – come correttamente dedotto dalla difesa della Curatela (cfr. pag. 11 della memoria di costituzione dell’8.6.2005) – di certo dagli atti (gli stessi che all’epoca erano a disposizione dei sindaci) si evince chiaramente che la Irti Lavori S.p.A. non sarebbe stata in grado di adempiere ad alcunché; e certo non può costituire un esonero di responsabilità per i sindaci - come per i consiglieri di amministrazione - il consenso prestato in quella sede dal rappresentante della CARISPAQ S.p.A., quale capofila del pool di banche;

che, inoltre, come correttamente rilevato dalla Curatela (cfr. pag. 36 della memoria di costituzione) i gravi atti di mala gestio degli amministratori causativi di danno che i sindaci avrebbero dovuto rilevare se avessero agito con diligenza e professionalità e l’evidente azzardo nella prosecuzione della gestione dell’attività d’impresa avrebbero dovuto – al di là dei profili considerati – indurre i sindaci a denunciare la condotta degli amministratori, in quanto gravemente irregolare, al P.M. perché sollecitasse il Tribunale a norma dell’art. 2409 c.c. od anche far aprire d’ufficio un procedimento per la dichiarazione di fallimento ovvero, infine, sporgere denunzia ex art. 331 c.p.p. in presenza di fatti penalmente rilevanti (cfr., in questi termini, Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252 e Trib. Messina, 12.11.1999, in Il Fallimento, 2000, pag. 1279).

[6.3] che il diverso rilievo causale di quanti, amministratori e sindaci, abbiano concorso alla causazione del danno, inteso come insufficienza patrimoniale della società, assume poi rilievo nei soli rapporti interni tra coobbligati (ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di regresso), e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell’illecito al danneggiato (società, creditori sociali, singoli soci e terzi), giusto il principio generale di solidarietà tra coobbligati di cui all’art. 2055, comma 1, c.c. (sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile, altresì, in tema di responsabilità contrattuale, quand’anche il danno derivi dall’inadempimento di contratti diversi, quand’anche la responsabilità abbia, per alcuno dei danneggianti, natura contrattuale, e, per altri, natura extracontrattuale), ribadito, con specifico riguardo ai sindaci della società, dall’art. 2407, comma 2, c.c., che esclude la legittimità di una commisurazione percentuale della responsabilità dei sindaci all’entità del loro concorso nella causazione dell’evento dannoso (cfr. Cass. civ., Sez. I, 28.5.1998, n. 5287);

che, inoltre, la responsabilità dei sindaci prevista dall’art. 2407, comma 2, c.c. ha carattere solidale anche nei rapporti fra i sindaci stessi;

[7] che, in tema di responsabilità nei confronti degli organi sociali, quando – come nel caso in esame, a parte le condotte di distrazione imputabili solo ad alcuni degli amministratori – il fondamentale addebito loro imputabile si individui nel dovere di intraprendere nuove operazioni, in caso di fallimento della società, il danno, in linea di principio, non può automaticamente identificarsi nella differenza fra attivo e passivo fallimentare, dovendo trovare applicazione le regole sul nesso di causalità materiale; tuttavia, il danno può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo, in mancanza di prova del maggior pregiudizio, se per fatto imputabile agli organi sociali si sia venuto a verificare il dissesto economico della società e il conseguente assoggettamento a fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252; Cass. civ., Sez. I, 30.7.1980, n. 4891; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1977, n. 1281);

che, anche nel caso dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti sindaci di una società di capitali sottoposta a procedura concorsuale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno loro imputabile non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale, sia in quanto lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell’organo di controllo, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il criterio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno; e tuttavia, il criterio ancorato alla differenza tra attivo e passivo può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci, ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei sindaci, nonché, nel caso in cui la condotta illegittima non sia stata temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, pertanto, sebbene debbano ritenersi fondate - in linea di principio - le censure mosse dai resistenti al criterio di determinazione del danno costituito dalla sbilancio tra attivo e passivo fallimentare (cfr. pagg. 19-30 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 dalla difesa di Fogliata; pagg. 10-11 della memoria difensiva di Mauro Irti depositata l'8.6.2005; pagg. 27-28 della memoria difensiva depositata dalla difesa dei sindaci in data 1°.7.2005), tuttavia non può ritenersi che le stesse incidano sulla valutazione della sussistenza dei presupposti per l'adozione della cautela, né - a ben vedere - neanche sulla quantificazione nelle presente sede del danno;

che, infatti, anche se le condotte omissive e – seppure soltanto per alcuni degli amministratori, come si è detto sopra, e quindi per i sindaci che rispondono in solido con gli stessi – commissive risultano individuate nella relazione del Curatore, ed anche se sia stata rinvenuta la contabilità sociale (tanto che è stato possibile al Curatore – e, in sede di procedimento penale, al dott. Casentino – di individuare una serie di irregolarità), poiché l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 146, ultimo comma, L.F. deve essere assunto sulla base di una cognizione sommaria, questo Giudice ritiene possibile adottare il criterio dello sbilancio tra attivo e passivo anche in sede di conferma del sequestro già disposto con decreto inaudita altera parte ritenuto che la giurisprudenza (anche di legittimità) afferma che il criterio basato sulla differenza tra attivo e passivo può comunque essere utilizzato - pur ricorrendone i presupposti - per una liquidazione in via equitativa del danno; nell’instauranda fase di merito sarà tuttavia possibile ogni diversa quantificazione del danno che potrà tenere conto sia della riclassificazione dei dati di bilancio alla luce delle irregolarità riscontrate sia di un’attività di liquidazione dell’attivo fallimentare ancora in corso, ma anche di uno stato passivo influenzato (in difetto) dalla pendenza di giudizi di opposizione ex art. 98 L.F. e da domande di insinuazione passiva, in entrambi i casi in numero non irrilevante e per importi significativi;

che, in particolare, detto criterio può essere utilizzato - sempre nella presente fase a cognizione sommaria - anche in relazione ai componenti del collegio sindacale in carica nell’epoca immediatamente precedente alla dichiarazione di fallimento e fino alla data della stessa, proprio sulla scorta di quella giurisprudenza di legittimità che gli stessi invocano per contestare la quantificazione del danno operata nei loro confronti;

che, peraltro, è opportuno rilevare come il criterio della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare può persino risultare penalizzante per la Curatela, come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.1998, n. 10488);

che, inoltre, anche a voler considerare esclusivamente gli esercizi in relazione ai quali il Curatore ha ritenuto di individuare una responsabilità degli amministratori e dei sindaci, già solo nel periodo 2000-2002 la Irti Lavori S.p.A. ha subito perdite di esercizio complessivamente per oltre 22 milioni di euro (cfr. pag. 6 memoria di costituzione del Fallimento depositata in data 8.6.2005, sulla scorta delle risultanze della documentazione contabile a disposizione del Fallimento);

che è invece opportuno rilevare come, considerata la responsabilità solidale degli amministratori di ciascun consiglio, e quindi di quelli facenti parte di un consiglio con i precedenti, il criterio di quantificazione del danno – con il chiarimento detto sopra – non è tale da incidere diversamente sulla responsabilità di ciascuno, diversamente da quanto ritenuto dagli ultimi consiglieri in carica;

che, tuttavia, i componenti del consiglio di amministrazione in carica fino al 31.7.2002 non possono essere chiamati a rispondere delle condotte distrattive, o comunque di depauperamento del patrimonio sociale, le quali - secondo quanto dedotto dal Curatore ed accertato anche dal dott. Cosentino in sede penale - sono state poste in essere solo successivamente a tale data; conseguentemente, il danno conseguente a dette condotte distrattive (contestate anche in sede penale) e, piú in generale, per gli atti di depauperamento del patrimonio sociale, può essere imputato esclusivamente ai consiglieri - e, in solido con questi, ai sindaci - in carica successivamente a detta data, vale a dire: Vincenzo Lamparelli, Stefano Fogliata, Raoul Maria Pozzi, Luigia Irti, Eugenio Arnone, Francesco Paolo Ferri E Innocenzo Chiacchio; pertanto, se quanto a detti amministratori il sequestro deve essere confermato fino alla concorrenza della somma come determinata con il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005, per gli amministratori in carica fino al 31.7.2002 lo stesso deve essere ridotto fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00: ciò alla luce di una stima - necessariamente sommaria - del danno derivante dalle condotte distrattive e dagli atti di depauperamento del patrimonio sociale posti in essere dall'ultimo C.d.A., come indicate dal Curatore e come accertato in sede di incidente probatorio nel corso del procedimento;

che, conseguentemente, limitatamente agli amministratori Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI, Maria Annunziata CHIARANDA’ deve essere modificato il decreto in data 13.5.2005, riducendo fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00 il sequestro già disposto;

[8] che, quanto alla sussistenza del requisito del periculum in mora, in primo luogo si deve rilevare che è principio pacifico in giurisprudenza che lo stesso può essere desunto sia da elementi obiettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, desumibili da un comportamento del debitore tale da lasciar presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti tali da rendere verosimile l’eventuale deprezzamento del suo patrimonio, sottraendolo ad esecuzione forzata; i due criteri, altrettanto pacificamente, non sono ritenuti concorrenti tra di loro, essendo sufficiente che sussista, alternativamente, uno dei due presupposti per l’adozione del provvedimento (cfr., in tal senso, dalla ormai risalente sentenza Cass. civ., Sez. III, 10.9.1986, n. 5541, Cass. civ., Sez. III, 13.2.2002, n. 2081; Cass. civ., Sez. II, 26.2.1998, n. 2139 e Cass. civ., Sez. II, 17.6.1998, n. 6042);

che, conseguentemente, priva di pregio appare la considerazione di Piero Irti secondo cui la sussistenza del periculum sarebbe da escludere in considerazione del lasso di tempo (poco meno di due anni) trascorso dalla dichiarazione di fallimento (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l'8.6.2005);

che, nella fattispecie all’esame di questo G.D., l’inadeguatezza del patrimonio di amministratori e sindaci è di tutta evidenza rispetto all’ammontare del credito che si vuole azionare in responsabilità, risultando dalle visure effettuate che il patrimonio immobiliare di amministratori e sindaci è di gran lunga inferiore rispetto all’ammontare del danno in ipotesi patito dalla Irti Lavori S.p.A. (cfr. documentazione nel fascicolo di parte del Fallimento);

che, pertanto, prive di pregio appaiono le deduzioni al riguardo delle difese dei resistenti (cfr. pag. 31 della memoria depositata dalla difesa di Fogliata in data 8.6.2005);

[9] che, quanto alle spese del presente procedimento, questo Tribunale si è già espresso nel senso che al procedimento cautelare ex art. 146, comma 3, L.F. deve ritenersi applicabile la disciplina dettata dal D. Lgs. 17.1.2003, n. 5 anche relativamente ai procedimenti cautelari ante causam posti in posizione di strumentalità rispetto alle stesse, rientrando nell’ambito di applicazione del medesimo «le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi (…) delle società», ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) di detto Decreto, e quindi anche dal curatore ai sensi dell’art. 146 L.F.; ai sensi dell’art. 23, comma 2, del D. Lgs. n. 5/2003, dunque, nell’ipotesi del sequestro previsto dall’art. 146 L.F., pur non avendo il provvedimento cautelare natura anticipatoria, il giudice deve provvedere «in ogni caso» alle spese del procedimento a norma degli artt. 91 ss. c.p.c., anche, quindi, in caso di accoglimento della domanda cautelare (cfr. Trib L’Aquila, ord. 11.8.2004, cit., peraltro, espressamente condivisa sul punto dal Collegio in sede di reclamo);

che, sebbene la cautela ex art. 146 L.F., strumentale all'esercizio dell'azione di responsabilità, materia quest'ultima ricompresa nella lett. a) del comma 1 dell'art. 1 del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5, debba essere assoggettata al nuovo rito previsto dall'art. 23 di detto Decreto, e malgrado debba affermasi che la disciplina dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. debba ritenersi sostituita da detto art. 23 non solo in relazione alle misure cautelari anticipatorie di cui al comma 1 di tale disposizione, tuttavia - ed in ciò mutando il proprio precedente orientamento - può dubitarsi della compatibilità tra la disciplina dell'art. 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e il procedimento cautelare disegnato dall'art. 146, ultimo comma, L.F.;

che, infatti, appare difficile conciliare la condanna alle spese con l'esercizio d'ufficio del potere cautelare in esame, che - come si è detto sopra - utilizza la "segnalazione" del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso;

che, come rilevato da acuta dottrina, laddove venisse revocato il provvedimento adottato a seguito dell'attivazione ufficiosa del procedimento da parte dal giudice delegato - e, in verità solo in maniera piú evidente, laddove la "segnalazione" dell'opportunità della misura cautelare neanche sia formulata dal Curatore, come appunto nel caso in esame (cfr. relazione del Curatore in data 11.5.2005) - non appare possibile ritenere che le spese possano essere poste a carico della Curatela, la cui istanza ha ad oggetto la richiesta di autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità; conseguentemente, se la cautela viene revocata, le spese dei resistenti devono dichiararsi irripetibili, e laddove venga confermata (o modificata), le spese del procedimento rimarranno a carico del Fallimento, il quale deve ritenersi tragga senz'altro un beneficio, ancorando la disposizione del comma 3 dell'art. 146 L.F. alla valutazione di opportunità da parte del giudice delegato;

che, conseguentemente, non può essere disposto il rimborso delle spese del presente procedimento alla Curatela, come pure richiesto;


P.Q.M.



Visti gli artt. 669-sexies c.p.c. e 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e

- conferma il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Vincenzo LAMPARELLI, Stefano FOGLIATA, Raoul Maria POZZI, Luigia IRTI, Eugenio ARNONE, Francesco Paolo FERRI e Innocenzo CHIACCHIO fino alla concorrenza di € 30.000.000,00 (trentamilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A. disposto con decreto inaudita altera parte in data 13.5.2005;

- modifica il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 e, per l'effetto, dispone il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI e Maria Annunziata CHIARANDA’ fino alla concorrenza di € 25.000.000,00 (venticinquemilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A.;

- nulla per le spese.


SI COMUNICHI



L’Aquila, 27.7.2005


Mario Montanaro




R.G. n. 889/2005

Fall. n. 27/2003





TRIBUNALE DI L’AQUILA

IL GIUDICE DELEGATO



letti gli atti e i documenti del procedimento, a scioglimento della riserva di cui al verbale dell’udienza di comparizione personale delle parti ai sensi dell’art. 669-sexies c.p.c. del 20.7.2005



OSSERVATO



[1] che preliminarmente deve esaminarsi quanto dedotto in relazione alla non persistenza in capo al giudice delegato del potere di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F. tanto alla luce della disciplina del procedimento cautelare uniforme quanto dell’ordinamento costituzionale;

che, in relazione al procedimento applicabile in ordine alle «opportune misure cautelari» che il giudice delegato può disporre ex art. 146, ultimo comma, L.F., v’è una compatibilità parziale della disciplina del rito cautelare uniforme per cui, da un canto, la riforma non ha inciso sulla competenza del giudice delegato, né sulla possibilità di disporre ex officio il sequestro contestualmente all’autorizzazione all’azione richiesta dal curatore; dall’altro, al decreto emesso inaudita altera parte deve seguire, a garanzia del contraddittorio, l’udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto, ai sensi del comma secondo dell’art. 669-sexies c.p.c. (cfr., tra le ultime, Trib. L’Aquila, ord. 11.8.2004, in Riv. dir. fall., 2003, II, p. 547 e segg.); infatti, come osservato in dottrina, la norma dell’art. 146, ultimo comma, L.F. non attiene alla competenza, ma piuttosto è attributiva di uno speciale potere, che viene attribuito al giudice delegato per la piú completa cognizione dei termini di fatto di tutte le problematiche attinenti la tutela cautelare delle ragioni creditorie, che, senza dubbio alcuno, questi è, per la funzione ricoperta e per la previa cognizione della procedura di fallimento, assai piú in grado di svolgere rispetto al giudice designato per il procedimento cautelare;

che l’istanza del curatore non ha valenza, quindi, di vero e proprio impulso di parte, e tanto meno di domanda in senso stretto, ma di mera segnalazione al giudice delegato, il quale esercita d’ufficio il potere cautelare utilizzando la stessa segnalazione del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso, contrariamente da quanto ritenuto da alcuni resistenti (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata dalla difesa di Piero Irti in data 8.6.2005; cfr. pag. 1 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Luigia Irti);

che la norma di cui all’art. 146, ultimo comma, L.F. è stata poi ritenuta conforme al dettato costituzionale, in particolare con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., e quest’ultimo anche nel testo novellato (il “giusto processo”, rispetto al quale dubita della conformità la resistente Luigia Irti: cfr. pag. 2 della memoria difesiva depositata in data 2.7.2005), risultando contemperata, nel rispetto del valore costituzionale del diritto di difesa, la competenza funzionale attribuita al giudice delegato e l’esigenza del giusto processo (cfr. Corte cost. 8.5.1995, n. 148; Corte cost. 31.5.2001, n. 176; Corte cost. 7.5.2002, n. 168);

che, inoltre, e per mera completezza (sebbene nessuna censura al riguardo sia stata formulata dai resistenti), l’art. 146 L.F. è del tutto compatibile con gli artt. 23 e 24 del D. Lgs. 17.1.2003, 5;

che, inoltre, parimenti deve essere disattesa la censura – mossa da tutti i resistenti – secondo cui nella relazione del Curatore mancherebbe l’indicazione analitica delle condotte omissive e/o commissive imputate a ciascun singolo amministratore (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti; pagg. 11 e 13 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 da Stefano Fogliata): infatti, il comando cautelare ex art. 146, ultimo comma, L.F. rientra nella discrezionalità del giudice delegato, e dunque non rileva la mancata allegazione da parte del curatore, che chiede l’autorizzazione alla proposizione dell’azione di responsabilità, degli elementi fatto e di diritto fondanti l’azione stessa e la concessione del sequestro, ed anche ciò non implica lesione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

che, peraltro, tale censura appare priva di fondatezza considerando – come si dirà di seguito – l’atteggiarsi della responsabilità di ciascun consigliere, almeno in relazione alla condotta omissiva;

[2] che, seppure solo per opportuna completezza, quanto all’accesso al fascicolo del fallimento, è orientamento di questo G.D. che sia esplicitamente consultabile tutto ciò che non sia esplicitamente individuato come riservato; in particolare, in relazione al Fallimento della Irti Lavori S.p.A., che consta ormai di diverse centinaia di istanze al G.D., si è provveduto all'individuazione delle relazioni e delle istanze del Curatore da ritenersi riservate, predisponendo un elenco, a disposizione della Cancelleria (che custodisce il fascicolo e che, dunque, deve rilasciare le copie): infatti, sulla scorta di detto elenco, è stato autorizzato a trarre copia il resistente Iniseo Irti, come documentato in atti;

che, al contempo, però, non è stata rigetta l'istanza di Mauro Irti, poiché con la stessa si è domandato il rilascio di copia di documentazione (verbali di assemblea e del C.d.A.) che non fatto parte del fascicolo del Fallimento, ma sono custoditi presso la sede sociale dal Curatore, a cui dunque andava piuttosto chiesta copia;

[3] che parimenti non può essere accolta l’eccezione di nullità del decreto di sequestro inaudita altera parte, poiché lo stesso sarebbe stato notificato oltre il termine perentorio di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies c.p.c., come dedotto dal resistente Mauro Irti (cfr. pag. 11 e 12 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, in verità, la notificazione del decreto di sequestro deve ritenersi avvenuta nel termine di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c.;

che, come rilevato dalla difesa della Curatela, per valutare l’avvenuto rispetto del termine previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. deve considerarsi il momento in cui copia del decreto viene consegnata all’ufficiale giudiziario per la notificazione, non quello in cui lo stesso viene effettivamente ricevuto dal sequestrato; nel caso in esame, dunque, la notificazione si è perfezionata per il sequestrante negli otto giorni a decorrere dal deposito in cancelleria del decreto di sequestro di questo G.D., avvenuto in data 13.5.2005: infatti, l’istanza del Curatore e il decreto del G.D. sono stati consegnati all’ufficiale giudiziario per la notifica in data 20.5.2005, e tanto è sufficiente per il rispetto del termine, anche laddove si riferisca la perentorietà senz’altro ad un termine «non superiore a otto giorni», e non al termine comunque assegnato dal giudice all’istante (cfr. pag. 7 della memoria difensiva del Fallimento depositata in data 2.7.2005);

che a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 447/2002 e n. 28/2004, nonché n. 69/1994 e n. 358/1996, costituisce ormai principio del ordinamento processuale quello secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve essere distinta da quello in cui essa si perfeziona per il notificato; in particolare, la regola generale della distinzione dei due momenti va desunta da quella espressamente prevista dall’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo posta e, conseguentemente, applicata anche alla notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario, sicché anche quest’ultima notifica si perfeziona, per il notificante, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (cfr., Cass. civ., S.U., 26.7.2004, n. 13970; Cass. civ., Sez. L, 28.6.2004, n. 11995); la Suprema Corte ha chiarito che la certezza della data di consegna dell'atto notificando non si può affidare ad una dichiarazione di parte, né ad un'indicazione temporale che, pur contenuta nel documento, sia priva di qualunque riferimento idoneo ad individuare l'autore e ad esplicare la finalità, ma può configurarsi, ad esempio, attraverso la produzione della ricevuta rilasciata ai sensi dell'art. 109 del D.P.R. 15.12.1959, n. 1229 dall'ufficiale giudiziario dell'incarico affidatogli, ovvero dell'attestazione da parte dello stesso pubblico ufficiale circa la data di ricezione dell'atto medesimo (cfr. Cass. civ., Sez. V, 29.9.2005, n. 19508; Cass. civ., Sez. V, 2.9.2004, n. 17714);

che, pertanto, nel caso all’esame di questo Giudicante, il perfezionamento per il notificante è avvenuto il 20.5.2005, come documenta l’attestazione dell’ufficiale giudiziario di ricezione dell’atto per la notificazione (e contestuale liquidazione delle spese di tale attività), apposto in calce a tutte le relate di notifica effettuate in seguito (cfr. atto n. 1 del fascicolo della Curatela);

che, peraltro, e come rilevato dalla stessa Curatela, del pari controversa è, nell’ipotesi di concessione della cautela inaudita altera parte, l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la notifica del ricorso e del decreto: infatti, per parte della dottrina si identifica senz’altro con il deposito in cancelleria del decreto, che non dovrebbe essere oggetto di comunicazione al ricorrente, il quale quindi sarebbe onerato di controllare nella cancelleria del giudice l’esito della propria domanda;

che, tuttavia, se tale opinione è comunque criticabile per le conseguenze che ciò determina per il ricorrente nelle ipotesi in cui la concessione della cautela con decreto sia stata domandata dal ricorrente, il quale quindi potrebbe – nella prospettiva della dottrina sopra richiamata – essere onerato dal verificare che il giudice abbia provveduto sulla sua domanda, non può essere assolutamente condivisa nell’ipotesi in esame, in cui una domanda della Curatela non solo in concreto non v’è stata, ma neanche è giuridicamente prospettabile, come si è detto ampiamente sopra; in altri termini, non si vede come possa farsi decorrere dal deposito in cancelleria il termine per la notificazione di un decreto di sequestro che venga adottato dal giudice delegato nell’esercizio di un potere officioso, quale quello di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F.;

che, conseguentemente, e come ritenuto da altra parte della dottrina, il termine decorre piuttosto dalla comunicazione al sequestrante, o comunque dal momento in cui sia documentato che lo stesso abbia avuto conoscenza del provvedimento in parola; nel caso di specie, dunque, il termine decorre con la presa visione da parte del Curatore, e quindi dal 18.5.2005 (come documentato in atti); a ben considerare, infatti, il termine in parola non può neanche essere fatto decorrere dal 16.5.2005, data in cui l’Avv. Manferoce ha preso visione del provvedimento in parola (quale provvedimento equipollente alla comunicazione: cfr. Cass. civ., Sez. I, 16.7.2004, n. 11319; Cass. civ., Sez. II, 29.4.2002, n. 6221): infatti, il G.D. ha nominato un difensore alla Curatela perché l’assista nella fase di conferma del decreto, mentre il difensore nominato è estraneo (non solo all’adozione del decreto, cui – come si è detto – è, a ben vedere, “estraneo” lo stesso Curatore) all’attività volta a determinare l’efficacia della misura, che è rimessa piuttosto al Curatore successivamente alla comunicazione dell’adozione del provvedimento: vale a dire che la notificazione del decreto ai sequestrati è attività che spetta al Curatore, e non al difensore nominato per la fase di conferma del sequestro, sebbene in concreto possa essere svolta da quest’ultimo (come, appunto, nel caso di specie); anche perché, in realtà, nella struttura propria del procedimento in parola, non ancorato alla domanda di parte, la Curatela non costituisce tecnicamente la parte ricorrente, e quindi ben potrebbe non spiegare alcuna difesa nella fase di conferma, ossia il G.D. potrebbe anche non nominare un difensore per detta fase, che quindi potrebbe non esserci, al contempo però dovendosi provvedere alla notificazione del provvedimento;

[4] che infondato è il rilievo – poiché non di eccezione si tratta, ma essendosi in sede cautelare, di deduzione rilevante ai fini della valutazione del fumus boni iuris – di prescrizione dell’azione di responsabilità, formulata dal resistente Vincenzo Lamparelli (cfr. pagg. 1-3 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005);

che, preliminarmente, è opportuno rilevare che non risponde al vero che la Curatela ha domandato di essere autorizzata ad esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori in carica dal 1997, come invece afferma il Lamparelli (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005): la lettura della relazione del Curatore in data 11.5.2005 evidenza come l’istanza abbia ad oggetto l’autorizzazione ad agire nei confronti degli amministratori in carica dall’esercizio 2000 in poi, pur riportando il dato che dal 16.10.1997 al 31.7.2002 gli stessi soggetti hanno rivestito la carica di consigliere (cfr. pag. 22 della relazione);

che, ciò opportunamente premesso, in primo luogo, deve rilevarsi – come fa la Curatela (cfr. pag. 9 della memoria difensiva del 1°.7.2005) – che il curatore del fallimento è il soggetto legittimato in via esclusiva anche all’esercizio dell’azione ex artt. 2392 e 2393 c.c., e – si aggiunga – il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 espressamente richiama anche dette disposizioni, sicché appare evidente come nel caso di specie alcuna prescrizione può essersi verificata: ai sensi dell’art. 2941, n. 7, c.c., infatti, il decorso del termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità è sospeso finché gli amministratori o i sindaci destinatari della pretesa risarcitoria sono in carica; orbene, Vincenzo Lamparelli è cessato dalla carica al tempo della dichiarazione di fallimento del 16.6.2003, sicché non può affermarsi essere maturato detto termine di prescrizione per l’azione di responsabilità nei confronti della Società;

che, in secondo luogo, anche con riferimento all’azione di responsabilità proposta dai creditori sociali, e quindi in caso di fallimento della società dal curatore, il termine di prescrizione quinquennale comincia a decorrere dal momento in cui il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti e può anche essere anteriore alla data dell’apertura della procedura concorsuale; l’onere di provare che l’insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento grava sull’amministratore (o sul sindaco) che eccepisce la prescrizione, e non può essere assolto mediante la generica deduzione, non confortata da utili elementi di fatto, secondo cui l’insufficienza patrimoniale della società fosse evidente al momento della chiusura dell'esercizio 1999, e quindi in un termine anteriore al quinquennio, poiché la perdita integrale del capitale sociale neppure implica la consequenziale perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 18.1.2005, n. 941); in particolare, detta insufficienza può risultare da qualsiasi atto che possa essere conosciuto anche senza verifica diretta sulla contabilità della società, non richiedendosi a tal fine che essa risulti da un bilancio approvato dall’assemblea dei soci (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.2004, n. 20637);

che il resistente Vincenzo Lamparelli si limita a rilevare che il bilancio relativo all’esercizio 1999 evidenziava un’esposizione debitoria per € 71.000.000,00 (cfr. pag. 2 della memoria depositata in data 8.6.2005), laddove la mera sussistenza di debiti (senza peraltro considerare che non necessariamente tutti erano esigibili dai creditori della società entro l’esercizio,ovvero entro l’esercizio successivo) non vuol dire che il patrimonio sociale all’epoca fosse insufficiente al pagamento degli stessi; ed in ogni caso ciò non è stato specificamente allegato;

che, quanto al caso in esame, il Curatore ha dedotto come la Società fallita versasse «in una situazione di grave insolvenza dalla seconda metà del 2001, atteso che già a quell’epoca la stessa non fosse in grado di far fronte con regolarità e con mezzi normali alle proprie obbligazioni»; e, soprattutto, di tale situazione avevano contezza gli amministratori allora in carica, avendo avanzato una proposta transattiva al ceto bancario, in data 20.12.2001, che prevedeva il pagamento del solo 45% dell'esposizione debitoria alla data del 30.9.1997, non garantita, assicurando l'integrale pagamento dei soli crediti privilegiati (cfr. pag. 7 della relazione depositata in data 11.5.2005); ma, in ogni caso, nessun ausilio al rilievo del resistente Lamparelli può essere rinvenuto nei bilanci della società e nei verbali dell'assemblea, non destinati alla pubblica diffusione e comunque inidonei a determinare tra i creditori quella necessaria obiettiva consapevolezza dell'esistenza di uno stato di insufficienza patrimoniale (cfr. Trib. Napoli, 16.4.2004, in Il Fallimento, 2005, p. 689);

[5] che, quanto alla responsabilità nei confronti della società, nel caso all’esame di questo G.D. deve trovare applicazione il testo dell’art. 2392 c.c. in vigore anteriormente alla riforma delle società di capitali operata con il D. Lgs. 17.1.2003, n. 6, in quanto le condotte sono state poste in essere nella vigenza delle disposizioni codicistiche, e non della novella, conformemente a quanto peraltro ritenuto dalla giurisprudenza; e su ciò, peraltro, le parti concordano (cfr. pag. 17 della relazione del Curatore; pag. 24 della memoria di costituzione del Fallimento; pag. 7-8 della memoria difensiva di Fogliata depositata in data 8.6.2005);

[5.1] che, al riguardo, l’art. 2392 c.c. (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003) impone a tutti gli amministratori un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno - come si evince dall’espressione “in ogni caso”, non ripetuta nel testo novellato - nell’ipotesi di attribuzioni all’Amministratore delegato, a meno che essi non forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, non abbiano potuto esercitare la predetta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio o dell’amministratore unico (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che, pertanto, per fondare la responsabilità dei singoli consiglieri di amministrazione non è necessario che gli stessi abbiano posto in essere «atti dolosamente preordinati alla riduzione del capitale sociale», come ritenuto da taluno (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005 da Piero Irti); né la contestazione di una condotta omissiva, quale quella che viene in rilievo ai sensi dell’art. 2392 c.c., può determinare – con tutta evidenza – la contestazione di fatti specifici, come invece ritengono i resistenti (cfr. pag. 2 della memoria difensiva della difesa di Piero Irti in data 8.6.2005 e pag. 3 della memoria depositata dalla stessa difesa il 1°.7.2005; pag. 6 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Stefano Fogliata);

che, pertanto, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, non determina di per sé alcuna esclusione di responsabilità del singolo consigliere di amministrazione che con la delibera del consiglio del 31.7.2002 all’Amministratore delegato Sandro Maccagni siano stati conferiti «tutti i poteri “nessuno escluso” di ordinaria e straordinaria amministrazione a firma libera ed individuale»; né – in particolare – che questi non relazionasse al Consiglio in occasione delle riunioni, e come pure gli è stato contestato da Luigia Irti durante la riunione del Consiglio del 27.1.2003 (cfr. pag. 5 della memoria della difesa di Lamparelli depositata l’8.6.2005; pag. 6 delle memoria difensiva depositata dalla difesa di Luigia Irti l’8.6.2005), ovvero che nelle sedute del C.d.A. cui avrebbero preso parte non venissero «trattati argomenti di rilievo dal punto di vista patrimoniale» (cfr. pag. 7 delle memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti), ovvero ancora che l’Amministratore delegato “plenipotenziario” nelle riunione del C.d.A. non facesse mai menzione «di alcuno dei fatti potenzialmente dannosi per la società» (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva di Luigia Irti dell’8.6.2005); in buona sostanza, gli amministratori, per sottrarsi alla responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., non possono addurre a loro giustificazione di non aver effettivamente preso parte all’amministrazione o di non aver avuto conoscenza della gestione (cfr. Trib. Milano, 13.6.1991, in Le Società, 1992, pag. 76);

che, quanto al controllo spiegato dal consigliere Luigia Irti, poi, vero è che la stessa ha consegnato in data 30.12.2002 una raccomandata a mano a Sandro Maccagni «contenente rilievi (del tutto significativi e decisamente pesanti) sulla gestione societaria» (cfr. pag. 6 della memoria difensiva dell’8.6.2005), circostanza di cui dà atto anche il perito del G.I.P., dott. Cosentino (cfr. pag. 51 dell’elaborato depositato nel procedimento penale, e prodotto dalle parti), ma è di tutta evidenza come tale attività - così come l’atto presupposto, ossia la lettera - non sia affatto idonea ad integrare l’esercizio di quei poteri di controllo che l’amministratore ha il potere/dovere di porre in essere, come si è detto sopra; né – e, in verità, in maniera assorbente – la stessa può integrare un dissenso giuridicamente rilevante: il dissenso dell’amministratore, che ai sensi dell’art. 2392, ultimo comma, c.c. consente il suo esonero da responsabilità, deve consistere necessariamente nell’annotazione nel libro delle adunanze e delle delibere del C.d.A. e nella comunicazione scritta al Presidente del Collegio sindacale (cfr. Trib. Sulmona, 21.9.1993, in Le Società, 1994, p. 635);

che, inoltre, non può ritenersi che la condotta diligente richiesta al singolo consigliere, nell’ipotesi di delega, sia «quella di chiedere notizie» (cfr. pag. 11 e 13 delle memoria difensiva di Luigia Irti del 8.6.2005): infatti, il comportamento ostativo dell’Amministratore delegato – cui fa riferimento la giurisprudenza di legittimità – non è certo ravvisabile semplicemente nel non aver fornito notizie sulla gestione sociale; peraltro, la dottrina evidenzia la persistenza dei poteri in capo all'amministrazione anche in caso di delega;

che, in particolare, è appena il caso di rilevare come nessuno dei resistenti deduca una condotta ostativa all’esercizio dei poteri si controllo posta in essere da Iniseo Irti prima, e quindi – dal 31.7.2002 – da Sandro Maccagni; anche in relazione a tale amministratore delegato, a ben vedere, è stato dedotto un comportamento tale da determinare quell’impotenza dell’esercizio dei poteri del singolo consigliere, tale non essendo certo sic et simpliciter quello di non fornire le informazioni richieste;

che Vincenzo Lamparelli, che pure ha contestato che lo stesso avesse l’effettiva possibilità di controllo dell’operato del Maccagni, non ha però dedotto una condotta dell’Amministratore delegato che in concreto avrebbe impedito l’esercizio del controllo; allega piuttosto di aver chiesto a Maccagni «spiegazioni in merito alla ricapitalizzazione della società», per ricevere la tranquillizzante risposta dell’Amministratore delegato «che l’accordo con le banche era stato sostanzialmente raggiunto e che “i soldi erano già disponibili”» (cfr. pag. 5 della memoria difensiva dell’8.6.2005) e in piú occasioni «rassicurazioni sulla corretta gestione e sul buon andamento delle operazioni finanziarie» (cfr. pag. 4 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005), e quindi – in buona sostanza – di essersi fidato dell’Amministratore delegato e, per ciò solo, ammette di aver omesso l’esercizio dei loro poteri/doveri di controllo; e questa è anche la ragione giustificativa dell’omesso controllo dedotta da Stefano Fogliata (cfr. pagg. 14-17 memoria depositata l’8.6.2005), per il quale valgano le stesse considerazioni appena svolte;

che, in particolare, il consigliere di amministrazione Lamparelli non può dedurre che allo stesso nulla si può imputare per essersi fidato delle capacità finanziarie di Sandro Maccagni, laddove anche la famiglia Irti e il Collegio sindacale non hanno sospettato alcunché (cfr. pagg. 16 e 17 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005); così come l’essersi fidati – anche sulla scorta che dello stesso si siano fidati terzi ben piú “attrezzati”, quali (almeno in un primo momento) la CARISPAQ S.p.A. e i rappresentanti degli Enti locali – non è esonero responsabilità da parte di un soggetto che, per espressa previsione di legge, proprio in considerazione degli strumenti di controllo che gli sono riconosciuti, è chiamato a rispondere solidalmente laddove non li eserciti;

che, inoltre, proprio in considerazione dell’atteggiarsi della responsabilità del singolo componente del consiglio di amministrazione, è di tutta evidenza come non possa fondarsi una valutazione di diligente assolvimento del proprio incarico, ai fini dell’esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., riguardando esclusivamente alla delega “di fatto” allo stesso conferita; conseguentemente, Lamparelli non può dedurre, al fine di escludere la propria responsabilità per l’operato di Maccagni, che la propria posizione andrebbe «analizzata alla luce dell'esatta individuazione delle prestazioni professionali svolte dallo stesso in favore della fallita e fatturate dalla CECAD s.r.l. e non può rientrare nel quadro generale dell'azione di responsabilità» (cfr. pag. … della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

[5.2] che deve comunque escludersi che i componenti del consiglio di amministrazione possano invocare esenzione da responsabilità in riferimento ad addebiti concernenti la redazione del bilancio di esercizio, che costituisce un atto che involge la responsabilità dell’intero organo collegiale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che il Curatore rileva come gli amministratori – tutti gli amministratori che si sono succeduti dall'esercizio 2000 al 16.6.2003 (data di dichiarazione del fallimento) – abbiano posto in essere una «protratta e sistematica violazione delle regole poste in tema di redazione del bilancio di esercizio, con la ingiustificata valutazione di alcune poste», ed in particolare nella violazione dei principi di verità e correttezza, «preordinato al fine di celare lo stato di insolvenza in cui già da tempo si trovava la Irti Lavori s.p.a.» (cfr. pag. 2 della relazione ex art. 33 L.F. depositata in data 11.5.2005);

che, in particolare, gli amministratori in carica negli esercizi dal 2000-2002 devono ritenersi – seppure in sede di cognizione sommaria, propria della presente fase – responsabili senz’altro della «lunga serie di irregolarità contabili e nella protratta e sistematica violazione delle regole di redazione del bilancio di esercizio» evidenziate dalla Curatela nella relazione;

che, in particolare, quanto a Maria Annunziata Chiarandà, dopo aver dedotto di aver votato contro il progetto di bilancio (e, quindi, in assemblea di non avere approvato il bilancio) relativo all’esercizio 1997, per quindi impugnare – si badi, in quanto socio della Irti Lavori S.p.A., e non certo in quanto amministratore – la delibera di approvazione del bilancio con atto di citazione del 24.9.1998, in relazione agli esercizi successivi la stessa deduce, in primo luogo, che «ha progressivamente diradato la propria presenza in consiglio in attesa di veder riconosciuta la correttezza delle censure formulate con la predetta impugnativa del bilancio» (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), condotta questa che senz’altro non costituisce atto di controllo dell’operato dell’amministratore delegato, nella persona del presidente del consiglio, l’Arch. Iniseo Irti: non si vede come il semplice non prendere parte alla predisposizione del bilancio da sottoporre all’approvazione dell’assemblea valga ad escludere la sussistenza della contestata condotta omissiva; in secondo luogo, la Chiarandà deduce di aver differenziato la propria posizione in seno al consiglio di amministrazione, «a volte astenendosi, altre esprimendo voto contrario», per poi elencare – unitamente ad ipotesi di mancata partecipazione, di cui già si è detto – solo dichiarazioni di astensione (cfr. pagg. 3 e 4 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), che parimenti non possono costituire l’esercizio dei doverosi poteri di controllo in seno all’amministratore;

che anche Luigia Irti, componente del consiglio di amministrazione della Società fallita dal 31.7.2003 al 21.2.2003, non può dunque invocare, ad esonero di responsabilità, di non aver partecipato all’approvazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 e di essersi astenuta durante la riunione del 27.1.2003 del C.d.A. dall’approvazione del progetto di bilancio predisposto (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, conclusivamente sul punto, pur nell’ambito della cognizione sommaria che è propria della presente fase, da quanto dedotto dagli stessi resistenti, ancor prima che da quanto documentato in atti, non può affermarsi che i consiglieri di amministrazione succedutisi nel periodo di tempo indicato dal Curatore abbiano messo in moto qualunque meccanismo necessario che gli avrebbe consentito di provvedere al controllo sulla gestione societaria, e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda (cfr. Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238);

[5.3] che nell’esclusione dall’esenzione da responsabilità affermata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla redazione rientra, ad avviso di questo G.D., anche la redazione del bilancio relativa all’operazione di copertura perdite che superino il terzo del capitale sociale: infatti, la relazione degli amministratori sulla situazione patrimoniale della società, prevista dagli artt. 2446 e 2447 c.c., avendo lo scopo di informare dettagliatamente i soci sulla reale situazione, in modo tale da consentire all’assemblea di deliberare consapevolmente, ove ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti previsti nelle richiamate disposizioni, deve essere redatta con criteri sostanzialmente uguali a quelli prescritti per il bilancio di esercizio (cfr. Cass. civ., Sez. I, 5.5.1995, n. 4923; Trib. Cosenza, 8.2.1994, in Le Società, 1994, pag. 1071); conseguentemente, la stessa deve ritenersi del tutto equiparabile – sotto il profilo della responsabilità che ne deriva – al bilancio di esercizio che gli amministratori devono redigere ai sensi dell’art. 2423, comma 1, c.c.;

che, conseguentemente, vero è che Stefano Fogliata – come ha dedotto (cfr. pag. 9 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005) – non ha approvato alcun bilancio di esercizio della Società fallita, ma la circostanza (in sé, peraltro tecnicamente sbagliata: il consiglio di amministrazione, infatti, non approva il bilancio, ma il progetto di bilancio, che quindi viene sottoposto all’assemblea per l’approvazione), non solo non rileverebbe, come si è detto sopra, ma - in particolare - non può ritenersi corrispondere al vero: infatti, se tale consigliere non ha partecipato a predisporre alcun bilancio di esercizio, alla luce di quanto si è rilevato sopra comunque risponde della redazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 approvato alla riunione del C.d.A. del 12.9.2002, sulla scorta della quale l'assemblea straordinaria dei soci, in seconda convocazione, ha deliberato l'azzeramento del capitale sociale e, quindi, la ricostituzione dello stesso nella misura di € 6.240.000,00 (cfr. doc. n. 33 del fascicolo di parte del Collegio sindacale);

che anche Luigia Irti non può chiamarsi fuori da detta operazione di ricopertura del capitale per perdite, poiché la stessa sarebbe stata deliberata dall’assemblea del 21.3.2003, alla quale la stessa non ha partecipato, «con ciò non assumendo la paternità di quanto il Presidente del CdA Maccagni, ha riferito e suggerito in quella sede» (cfr. pag. 8 della memoria difensiva dell’8.6.2005); la mera non partecipazione alla riunione consiliare non determina, dunque, l'esonero da responsabilità per detto atto che è del C.d.A., e comunque avendo dovuto la stessa attivarsi per far valere l’illegittimità di un atto di cui, invece, vigorosamente disconosce la paternità solo con il presente procedimento;

[5.4] che lo stesso valga con riferimento alla situazione patrimoniale al 31.8.2002, del tutto inveritiera, che presentava addirittura un utile di esercizio di periodo al 31.8.2002 di € 9.220.721,56, che gli amministratori hanno approvato nella riunione del C.d.A. del 12.9.2002, pur trovandosi la società – per loro stessa ammissione – nell’ipotesi di cui all’art. 2446 c.c., nel tentativo di procrastinare l’attività d’impresa;

che, in particolare, è opportuno rilevare come i componenti del consiglio di amministrazione in carica all'epoca non possono dedurre che gli stessi sono stati ispirati dall’intento di “salvataggio della società” (cfr. pag. 2 della memoria difensiva di Iniseo Irti depositata l’8.6.2005) o comunque per «risanare l’azienda» (cfr. pag. 9 della memoria difensiva di Maria Annunziata Chiarandà depositata l’8.6.2005); anzi, come rilevato dalla Curatela, tale comportamento deve essere valutato come una negligente scelta di avere voluto continuare a tutti i costi nella gestione dell’impresa, quando doveva ritenersi ormai non piú reversibile una situazione di crisi patrimoniale e finanziaria e nella consapevolezza dell’assenza e, comunque, del fallimento – sin dal 1999 – di un piano di ristrutturazione aziendale atto a rimuovere od ovviare, almeno parzialmente, alla situazione gravemente deficitaria che si era venuta a creare (cfr. pag. 14 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005);

che, infine, quanto alla sussistenza di un danno in relazione a tale loro condotta, è appena il caso di rilevare che è quantomeno singolare affermare che non vi sarebbe alcuna certezza della sussistenza di un danno per i creditori e per la Società dalla condotta degli amministratori (cfr. pag. 4 e 5 della memoria difesa Piero Irti depositata il 1°.7.2005);

[5.5] che per le violazioni commesse e già evidenziate gli amministratori sono chiamati, altresì, a rispondere nei confronti dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale; infatti, tali condotte hanno determinato l’insufficienza del patrimonio sociale, al cui verificarsi è subordinata l’esperibilità dell’azione di responsabilità da parte dei creditori, e quindi del curatore ai sensi del terzo comma del suddetto articolo, insufficienza che è nozione diversa e piú grave della mera insolvenza, che costituisce il presupposto della dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 6.10.1981, n. 5341);

che anche delle condotte distrattive compiute nel periodo successivo al 31.7.2002 e poste in essere da Sandro Maccagni, elencate dal Curatore nella propria relazione (cfr. pagg. 10-15 della relazione depositata in data 11.5.2005) – e di cui sono chiamati a rispondere, in solido con lo stesso, anche i componenti del C.d.A. in carica dal 31.7.2002 al momento della dichiarazione di fallimento (o, comunque, fino al momento in cui sono rimasti in carica; ed in tal senso si deve affermare la responsabilità – in sede civile – per le condotte distrattive anche di Luigia Irti, che pure si duole di tale imputazione: cfr. pag. 12 della memoria difensiva dell’8.6.2005), si rileva che le condotte distrattive evidenziate dal Curatore nella propria relazione hanno trovato conferma nella perizia svolta nel procedimento penale, ed in particolare in sede di incidente probatorio (cfr. doc. n. 1 del fascicolo del resistente Paolo Irti);

che, in sintesi, del tutto correttamente nella relazione depositata l’11.5.2005 il Curatore del Fallimento della Irti Lavori S.p.A. ha addebitato a tutti i consiglieri in carica le condotte distrattive poste in essere da Maccagni (cfr. pag. 24 della relazione depositata in data 11.5.2005); infatti, quello che si domanda al singolo consigliere non è certo che «seguisse tutti i giorni l’A.D. per controllare gli assegni che emetteva» (cfr. pag. 9 delle memoria difensiva del 8.6.2005 di Luigia Irti), ma che esercitasse i poteri di controllo in ordine alla gestione di cui si è detto sopra;

[5.6.] che, inoltre, tutti i componenti del consiglio di amministrazione della Società fallita sono responsabili in solido per la violazione di detto obbligo di vigilanza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110; Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238; ); conseguentemente, priva di pregio è la richiesta graduazione dell’importo in relazione al quale è stato concesso il sequestro con riferimento alla condotta tenuta da ciascun consigliere, considerando piú benevolmente le posizioni ritenute “marginali”;

che, inoltre, dei danni arrecati alla società dai precedenti amministratori, per aver occultato il dissesto della società una volta che del dissesto stesso erano venuto a conoscenza, risponde anche il C.d.A. subentrato il 31.7.2002, avendo i nuovi amministratori omesso di eliminare gli illeciti commessi da chi li ha preceduti o di attenuare le conseguenze dannose derivatene (cfr. Cass. civ., Sez. I, 27.2.2002, n. 2906; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1998 n. 3483); e così Stefano Fogliata non può certo invocare la esenzione di responsabilità per le condotte poste in essere dai precedenti amministratori (cfr. pag. 10 e pag. 26 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), e tanto meno - in considerazione del dedotto vincolo solidale - può ritenersi responsabile esclusivamente del danno che egli stesso avrebbe provocato;

che, inoltre, non è possibile ritenere che del danno verificatosi nel corso di una determinata gestione della stessa non possa essere chiamato a rispondere l’amministratore che sia cessato dalla carica prima della data di chiusura dell’esercizio (cfr. pag. 3 della memoria difensiva di Piero Irti depositata l'8.6.2005): infatti, è di tutta evidenza come il danno non si realizzi al momento della chiusura dell’esercizio, piuttosto essendo il bilancio relativo a detto esercizio (e che, quindi, normalmente va dal 1° gennaio al 31 dicembre) ad evidenziare contabilmente ad una determinata data detta perdita;

[6] che anche in relazione ai componenti del collegio sindacale trova applicazione ratione temporis il testo dell’art. 2407 c.c. vigente prima delle rilevanti modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003;

[6.1] che, ai fini della responsabilità solidale dei sindaci di una società per azioni con gli amministratori, ex art. 2407, comma 2, c.c., per i fatti e per le omissioni di questi ultimi (cfr. anche Cass. civ., Sez. I, 15.5.1991, n. 5444), quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità con gli obblighi della loro carica, l’obbligo di vigilanza dei sindaci non è limitato allo svolgimento dei compiti di mero controllo contabile e formale, ma si estende anche al contenuto della gestione, atteso che la previsione della prima parte del primo comma dell’art. 2403 c.c. va combinata con quelle del terzo e quarto comma del medesimo articolo, che conferiscono al collegio sindacale il potere – che è anche un dovere da esercitare in relazione alle specifiche situazioni – di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati fatti (cfr. Cass. civ., Sez. I, 7.5.1993, n. 5263);

che, come i componenti del collegio sindacale hanno assai puntualmente dedotto, gli stessi hanno senz’altro assolto all’obbligo di richiedere – costantemente, nel corso della loro durata in carica –agli amministratori, e all’Amministratore delegato Sandro Maccagni in particolare, notizie in relazione alla gestione sociale, sebbene – in verità – il loro controllo si sia incentrato prevalentemente su questioni inerenti al bilancio, e non anche - come sarebbe stato opportuno - alla gestione sociale (sebbene questa seconda non sia certo indifferente con riferimento alle prime);

che, tuttavia, la responsabilità del collegio sindacale non consegue esclusivamente all’espletamento a tale attività di controllo;

[6.2] che, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la mancata impugnazione da parte dei sindaci di una società di capitali delle delibera dell’assemblea, che approva un bilancio di esercizio redatto in violazione dei principi stabiliti dal codice civile, può fondare la loro responsabilità ex art. 2407 c.c., anche se essi abbiano assunto la carica soltanto in occasione della sua approvazione; il documento contabile è, infatti, destinato a spiegare i suoi effetti anche sull’esercizio successivo, mentre il controllo sull’osservanza della legge, al quale essi sono tenuti ex art. 2403 c.c., ha ad oggetto anche la legittimità delle delibere assembleari, specie se adottate all’esito di un procedimento nel quale si inseriscono precedenti atti degli amministratori, essendo peraltro espressamente attribuita ai sindaci la legittimazione all’impugnazione delle delibere assembleari (art. 2377 c.c.) (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, sebbene il collegio sindacale invitò l’assemblea dei soci a non approvare il bilancio relativo all’esercizio 2001, ma – come gli stessi sindaci rilevano – l’assemblea dei soci dell’8.7.2002 ha approvato il bilancio, nonostante detto parere contrario; l’organo di controllo, però, non ha - doverosamente ed opportunamente - impugnato detta deliberazione assembleare; nel corso di detta assemblea ha dedotto l’intenzione di provvedere a breve alla convocazione dell’assemblea per gli adempimenti di cui all’art. 2446, comma 1, c.c., ed è questa la “famigerata” assemblea del 31.7.2002, che vede l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Sandro Maccagni – che aveva già definito i propri accordi con la proprietà, in rappresentanza della quale siede in consiglio Luigia Irti – e i suoi "collaboratori" Raoul Pozzi, Stefano Fogliata e Vincenzo Lamparelli, ed il primo viene nominato Amministratore delegato; tale assemblea, però, come deducono i sindaci stessi, non delibera senz’altro di provvedere alla riduzione e ricostituzione del capitale sociale, ma si è limitata a prendere atto di detta necessità e del raggiungimento dell’accordo con il ceto bancario, ad eccezione della B.N.L. S.p.A., nei termini in cui ha riferito Maccagni;

che, se sussiste l’obbligo di impugnazione delle delibere assembleari potenzialmente dannose per i soci, a maggior ragione deve rilevarsi come i sindaci avrebbero dovuto impugnare tempestivamente la deliberazione di aumento del capitale sociale assunta all’assemblea del 21.2.2003, con cui è stato deliberato l’aumento del capitale sociale senza che il socio Maccagni provvedesse senz’altro al versamento contestuale: infatti, il collegio sindacale si è limitato a svolgere delle osservazioni a verbale circa detta necessità di sottoscrizione contestuale, mostrando così di essere consapevole dell’illegittimità di tale condotta, ma una volta che la stessa è stata disattesa – conformemente al parere espresso dal notaio verbalizzante – dall'assemblea dei soci, non ha provveduto senz’altro ad impugnare delibera, ma in data 29.5.2003 ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di L’Aquila denunciando la millantata e falsificata copertura delle perdite e la ricostruzione del capitale sociale successivamente accertata da detto organo (cfr. doc. n. 37 del fascicolo di parte), per poi rimettere una relazione al Tribunale soltanto il giorno in cui è stato dichiarato il fallimento della Società, pur essendo a conoscenza della pendenza già da qualche mese di numerose istanze di fallimento, tra cui quelle delle banche;

che è di tutta evidenza, dunque, come l’organo di controllo, pur avendo diligentemente ed in maniera penetrante esercitato i propri poteri di controllo della gestione, non ha invece esercitato quelli di controllo del rispetto delle legge (e dell’atto costitutivo), a tutela anche dei creditori sociali: quello che agli stessi si contesta da parte della Curatela non è, dunque, l’insuccesso del loro controllo, ma la mancata attivazione di ogni potere agli stessi a tal fine, quale ad esempio quello dell’impugnazione di detta delibera;

che, peraltro, l’esposto al Procuratore della Repubblica del 29.5.2003 – in prossimità dell’udienza ex art. 5 L.F. – appare quanto meno tardivo, se si considera che con sentenza pubblicata il 16.6.2003 il Tribunale di L’Aquila ha dichiarato il fallimento della Irti Lavori S.p.A. sulla scorta di istanze depositate già gli ultimi mesi del 2002;

che, poi, la difesa del collegio sindacale appare contraddittoria laddove, dopo aver puntualmente dedotto tutte le critiche mosse alla gestione sociale, volta a infirmare le bontà delle decisioni assunte, deduce quindi che «la scelta di procrastinare il ricorso a procedure concorsuali e di tentare un progressivo ritorno in bonis, rappresentava una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda», che avrebbe così giustificato la loro condotta di attesa e verifica degli adempimenti dell’amministratore delegato, anche a tutela dei creditori sociali (e, principalmente dei lavoratori) (cfr. pagg. 27-28 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005); in altri termini, dopo aver riferito di tutti i momenti in cui gli stessi avrebbero contestato la bontà ed attendibilità delle scelte gestionali, oltre che delle rappresentazioni contabili, affermano che però la loro condotta di soprassedere da atti "estremi", che avrebbero determinato la cessazione dell'attività della Irti Lavori S.p.A., è stata motivata dalla circostanza che quella che si prospettava ai loro occhi – fino al 29.5.2003, deve intendersi – era «una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda»;

che, quanto all’assemblea al 12.9.2002, che ha approvato una situazione patrimoniale al 31.8.2002 che rappresenta un utile di esercizio di € 9.220.721,56, la stessa non può dirsi in veritiera – come, invece, affermano i sindaci (cfr. pag. 20 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005): vero è, infatti, che «i titoli relativi alla riduzione per transazione dei debiti di natura bancaria erano ben esistenti, come sopra meglio trascritti e riferiti a un impegno di esecuzione molto prossimo, da definire entro il 7 novembre», tuttavia – come rileva lo stesso collegio sindacale – l’accordo non era stata eseguito, sicché non poteva essere senz’altro inserito in bilancio come se fosse stato eseguito, e quindi come se senz’altro le perdite ricoperte e la nuova finanza conseguente a detto accordo fosse senz’altro esistenti; d’altro canto, e – come correttamente dedotto dalla difesa della Curatela (cfr. pag. 11 della memoria di costituzione dell’8.6.2005) – di certo dagli atti (gli stessi che all’epoca erano a disposizione dei sindaci) si evince chiaramente che la Irti Lavori S.p.A. non sarebbe stata in grado di adempiere ad alcunché; e certo non può costituire un esonero di responsabilità per i sindaci - come per i consiglieri di amministrazione - il consenso prestato in quella sede dal rappresentante della CARISPAQ S.p.A., quale capofila del pool di banche;

che, inoltre, come correttamente rilevato dalla Curatela (cfr. pag. 36 della memoria di costituzione) i gravi atti di mala gestio degli amministratori causativi di danno che i sindaci avrebbero dovuto rilevare se avessero agito con diligenza e professionalità e l’evidente azzardo nella prosecuzione della gestione dell’attività d’impresa avrebbero dovuto – al di là dei profili considerati – indurre i sindaci a denunciare la condotta degli amministratori, in quanto gravemente irregolare, al P.M. perché sollecitasse il Tribunale a norma dell’art. 2409 c.c. od anche far aprire d’ufficio un procedimento per la dichiarazione di fallimento ovvero, infine, sporgere denunzia ex art. 331 c.p.p. in presenza di fatti penalmente rilevanti (cfr., in questi termini, Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252 e Trib. Messina, 12.11.1999, in Il Fallimento, 2000, pag. 1279).

[6.3] che il diverso rilievo causale di quanti, amministratori e sindaci, abbiano concorso alla causazione del danno, inteso come insufficienza patrimoniale della società, assume poi rilievo nei soli rapporti interni tra coobbligati (ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di regresso), e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell’illecito al danneggiato (società, creditori sociali, singoli soci e terzi), giusto il principio generale di solidarietà tra coobbligati di cui all’art. 2055, comma 1, c.c. (sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile, altresì, in tema di responsabilità contrattuale, quand’anche il danno derivi dall’inadempimento di contratti diversi, quand’anche la responsabilità abbia, per alcuno dei danneggianti, natura contrattuale, e, per altri, natura extracontrattuale), ribadito, con specifico riguardo ai sindaci della società, dall’art. 2407, comma 2, c.c., che esclude la legittimità di una commisurazione percentuale della responsabilità dei sindaci all’entità del loro concorso nella causazione dell’evento dannoso (cfr. Cass. civ., Sez. I, 28.5.1998, n. 5287);

che, inoltre, la responsabilità dei sindaci prevista dall’art. 2407, comma 2, c.c. ha carattere solidale anche nei rapporti fra i sindaci stessi;

[7] che, in tema di responsabilità nei confronti degli organi sociali, quando – come nel caso in esame, a parte le condotte di distrazione imputabili solo ad alcuni degli amministratori – il fondamentale addebito loro imputabile si individui nel dovere di intraprendere nuove operazioni, in caso di fallimento della società, il danno, in linea di principio, non può automaticamente identificarsi nella differenza fra attivo e passivo fallimentare, dovendo trovare applicazione le regole sul nesso di causalità materiale; tuttavia, il danno può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo, in mancanza di prova del maggior pregiudizio, se per fatto imputabile agli organi sociali si sia venuto a verificare il dissesto economico della società e il conseguente assoggettamento a fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252; Cass. civ., Sez. I, 30.7.1980, n. 4891; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1977, n. 1281);

che, anche nel caso dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti sindaci di una società di capitali sottoposta a procedura concorsuale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno loro imputabile non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale, sia in quanto lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell’organo di controllo, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il criterio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno; e tuttavia, il criterio ancorato alla differenza tra attivo e passivo può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci, ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei sindaci, nonché, nel caso in cui la condotta illegittima non sia stata temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, pertanto, sebbene debbano ritenersi fondate - in linea di principio - le censure mosse dai resistenti al criterio di determinazione del danno costituito dalla sbilancio tra attivo e passivo fallimentare (cfr. pagg. 19-30 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 dalla difesa di Fogliata; pagg. 10-11 della memoria difensiva di Mauro Irti depositata l'8.6.2005; pagg. 27-28 della memoria difensiva depositata dalla difesa dei sindaci in data 1°.7.2005), tuttavia non può ritenersi che le stesse incidano sulla valutazione della sussistenza dei presupposti per l'adozione della cautela, né - a ben vedere - neanche sulla quantificazione nelle presente sede del danno;

che, infatti, anche se le condotte omissive e – seppure soltanto per alcuni degli amministratori, come si è detto sopra, e quindi per i sindaci che rispondono in solido con gli stessi – commissive risultano individuate nella relazione del Curatore, ed anche se sia stata rinvenuta la contabilità sociale (tanto che è stato possibile al Curatore – e, in sede di procedimento penale, al dott. Casentino – di individuare una serie di irregolarità), poiché l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 146, ultimo comma, L.F. deve essere assunto sulla base di una cognizione sommaria, questo Giudice ritiene possibile adottare il criterio dello sbilancio tra attivo e passivo anche in sede di conferma del sequestro già disposto con decreto inaudita altera parte ritenuto che la giurisprudenza (anche di legittimità) afferma che il criterio basato sulla differenza tra attivo e passivo può comunque essere utilizzato - pur ricorrendone i presupposti - per una liquidazione in via equitativa del danno; nell’instauranda fase di merito sarà tuttavia possibile ogni diversa quantificazione del danno che potrà tenere conto sia della riclassificazione dei dati di bilancio alla luce delle irregolarità riscontrate sia di un’attività di liquidazione dell’attivo fallimentare ancora in corso, ma anche di uno stato passivo influenzato (in difetto) dalla pendenza di giudizi di opposizione ex art. 98 L.F. e da domande di insinuazione passiva, in entrambi i casi in numero non irrilevante e per importi significativi;

che, in particolare, detto criterio può essere utilizzato - sempre nella presente fase a cognizione sommaria - anche in relazione ai componenti del collegio sindacale in carica nell’epoca immediatamente precedente alla dichiarazione di fallimento e fino alla data della stessa, proprio sulla scorta di quella giurisprudenza di legittimità che gli stessi invocano per contestare la quantificazione del danno operata nei loro confronti;

che, peraltro, è opportuno rilevare come il criterio della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare può persino risultare penalizzante per la Curatela, come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.1998, n. 10488);

che, inoltre, anche a voler considerare esclusivamente gli esercizi in relazione ai quali il Curatore ha ritenuto di individuare una responsabilità degli amministratori e dei sindaci, già solo nel periodo 2000-2002 la Irti Lavori S.p.A. ha subito perdite di esercizio complessivamente per oltre 22 milioni di euro (cfr. pag. 6 memoria di costituzione del Fallimento depositata in data 8.6.2005, sulla scorta delle risultanze della documentazione contabile a disposizione del Fallimento);

che è invece opportuno rilevare come, considerata la responsabilità solidale degli amministratori di ciascun consiglio, e quindi di quelli facenti parte di un consiglio con i precedenti, il criterio di quantificazione del danno – con il chiarimento detto sopra – non è tale da incidere diversamente sulla responsabilità di ciascuno, diversamente da quanto ritenuto dagli ultimi consiglieri in carica;

che, tuttavia, i componenti del consiglio di amministrazione in carica fino al 31.7.2002 non possono essere chiamati a rispondere delle condotte distrattive, o comunque di depauperamento del patrimonio sociale, le quali - secondo quanto dedotto dal Curatore ed accertato anche dal dott. Cosentino in sede penale - sono state poste in essere solo successivamente a tale data; conseguentemente, il danno conseguente a dette condotte distrattive (contestate anche in sede penale) e, piú in generale, per gli atti di depauperamento del patrimonio sociale, può essere imputato esclusivamente ai consiglieri - e, in solido con questi, ai sindaci - in carica successivamente a detta data, vale a dire: Vincenzo Lamparelli, Stefano Fogliata, Raoul Maria Pozzi, Luigia Irti, Eugenio Arnone, Francesco Paolo Ferri E Innocenzo Chiacchio; pertanto, se quanto a detti amministratori il sequestro deve essere confermato fino alla concorrenza della somma come determinata con il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005, per gli amministratori in carica fino al 31.7.2002 lo stesso deve essere ridotto fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00: ciò alla luce di una stima - necessariamente sommaria - del danno derivante dalle condotte distrattive e dagli atti di depauperamento del patrimonio sociale posti in essere dall'ultimo C.d.A., come indicate dal Curatore e come accertato in sede di incidente probatorio nel corso del procedimento;

che, conseguentemente, limitatamente agli amministratori Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI, Maria Annunziata CHIARANDA’ deve essere modificato il decreto in data 13.5.2005, riducendo fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00 il sequestro già disposto;

[8] che, quanto alla sussistenza del requisito del periculum in mora, in primo luogo si deve rilevare che è principio pacifico in giurisprudenza che lo stesso può essere desunto sia da elementi obiettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, desumibili da un comportamento del debitore tale da lasciar presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti tali da rendere verosimile l’eventuale deprezzamento del suo patrimonio, sottraendolo ad esecuzione forzata; i due criteri, altrettanto pacificamente, non sono ritenuti concorrenti tra di loro, essendo sufficiente che sussista, alternativamente, uno dei due presupposti per l’adozione del provvedimento (cfr., in tal senso, dalla ormai risalente sentenza Cass. civ., Sez. III, 10.9.1986, n. 5541, Cass. civ., Sez. III, 13.2.2002, n. 2081; Cass. civ., Sez. II, 26.2.1998, n. 2139 e Cass. civ., Sez. II, 17.6.1998, n. 6042);

che, conseguentemente, priva di pregio appare la considerazione di Piero Irti secondo cui la sussistenza del periculum sarebbe da escludere in considerazione del lasso di tempo (poco meno di due anni) trascorso dalla dichiarazione di fallimento (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l'8.6.2005);

che, nella fattispecie all’esame di questo G.D., l’inadeguatezza del patrimonio di amministratori e sindaci è di tutta evidenza rispetto all’ammontare del credito che si vuole azionare in responsabilità, risultando dalle visure effettuate che il patrimonio immobiliare di amministratori e sindaci è di gran lunga inferiore rispetto all’ammontare del danno in ipotesi patito dalla Irti Lavori S.p.A. (cfr. documentazione nel fascicolo di parte del Fallimento);

che, pertanto, prive di pregio appaiono le deduzioni al riguardo delle difese dei resistenti (cfr. pag. 31 della memoria depositata dalla difesa di Fogliata in data 8.6.2005);

[9] che, quanto alle spese del presente procedimento, questo Tribunale si è già espresso nel senso che al procedimento cautelare ex art. 146, comma 3, L.F. deve ritenersi applicabile la disciplina dettata dal D. Lgs. 17.1.2003, n. 5 anche relativamente ai procedimenti cautelari ante causam posti in posizione di strumentalità rispetto alle stesse, rientrando nell’ambito di applicazione del medesimo «le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi (…) delle società», ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) di detto Decreto, e quindi anche dal curatore ai sensi dell’art. 146 L.F.; ai sensi dell’art. 23, comma 2, del D. Lgs. n. 5/2003, dunque, nell’ipotesi del sequestro previsto dall’art. 146 L.F., pur non avendo il provvedimento cautelare natura anticipatoria, il giudice deve provvedere «in ogni caso» alle spese del procedimento a norma degli artt. 91 ss. c.p.c., anche, quindi, in caso di accoglimento della domanda cautelare (cfr. Trib L’Aquila, ord. 11.8.2004, cit., peraltro, espressamente condivisa sul punto dal Collegio in sede di reclamo);

che, sebbene la cautela ex art. 146 L.F., strumentale all'esercizio dell'azione di responsabilità, materia quest'ultima ricompresa nella lett. a) del comma 1 dell'art. 1 del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5, debba essere assoggettata al nuovo rito previsto dall'art. 23 di detto Decreto, e malgrado debba affermasi che la disciplina dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. debba ritenersi sostituita da detto art. 23 non solo in relazione alle misure cautelari anticipatorie di cui al comma 1 di tale disposizione, tuttavia - ed in ciò mutando il proprio precedente orientamento - può dubitarsi della compatibilità tra la disciplina dell'art. 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e il procedimento cautelare disegnato dall'art. 146, ultimo comma, L.F.;

che, infatti, appare difficile conciliare la condanna alle spese con l'esercizio d'ufficio del potere cautelare in esame, che - come si è detto sopra - utilizza la "segnalazione" del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso;

che, come rilevato da acuta dottrina, laddove venisse revocato il provvedimento adottato a seguito dell'attivazione ufficiosa del procedimento da parte dal giudice delegato - e, in verità solo in maniera piú evidente, laddove la "segnalazione" dell'opportunità della misura cautelare neanche sia formulata dal Curatore, come appunto nel caso in esame (cfr. relazione del Curatore in data 11.5.2005) - non appare possibile ritenere che le spese possano essere poste a carico della Curatela, la cui istanza ha ad oggetto la richiesta di autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità; conseguentemente, se la cautela viene revocata, le spese dei resistenti devono dichiararsi irripetibili, e laddove venga confermata (o modificata), le spese del procedimento rimarranno a carico del Fallimento, il quale deve ritenersi tragga senz'altro un beneficio, ancorando la disposizione del comma 3 dell'art. 146 L.F. alla valutazione di opportunità da parte del giudice delegato;

che, conseguentemente, non può essere disposto il rimborso delle spese del presente procedimento alla Curatela, come pure richiesto;



P.Q.M.



Visti gli artt. 669-sexies c.p.c. e 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e

- conferma il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Vincenzo LAMPARELLI, Stefano FOGLIATA, Raoul Maria POZZI, Luigia IRTI, Eugenio ARNONE, Francesco Paolo FERRI e Innocenzo CHIACCHIO fino alla concorrenza di € 30.000.000,00 (trentamilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A. disposto con decreto inaudita altera parte in data 13.5.2005;

- modifica il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 e, per l'effetto, dispone il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI e Maria Annunziata CHIARANDA’ fino alla concorrenza di € 25.000.000,00 (venticinquemilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A.;

- nulla per le spese.



SI COMUNICHI



L’Aquila, 27.7.2005


Mario Montanaro




R.G. n. 889/2005

Fall. n. 27/2003





TRIBUNALE DI L’AQUILA

IL GIUDICE DELEGATO



letti gli atti e i documenti del procedimento, a scioglimento della riserva di cui al verbale dell’udienza di comparizione personale delle parti ai sensi dell’art. 669-sexies c.p.c. del 20.7.2005



OSSERVATO



[1] che preliminarmente deve esaminarsi quanto dedotto in relazione alla non persistenza in capo al giudice delegato del potere di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F. tanto alla luce della disciplina del procedimento cautelare uniforme quanto dell’ordinamento costituzionale;

che, in relazione al procedimento applicabile in ordine alle «opportune misure cautelari» che il giudice delegato può disporre ex art. 146, ultimo comma, L.F., v’è una compatibilità parziale della disciplina del rito cautelare uniforme per cui, da un canto, la riforma non ha inciso sulla competenza del giudice delegato, né sulla possibilità di disporre ex officio il sequestro contestualmente all’autorizzazione all’azione richiesta dal curatore; dall’altro, al decreto emesso inaudita altera parte deve seguire, a garanzia del contraddittorio, l’udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto, ai sensi del comma secondo dell’art. 669-sexies c.p.c. (cfr., tra le ultime, Trib. L’Aquila, ord. 11.8.2004, in Riv. dir. fall., 2003, II, p. 547 e segg.); infatti, come osservato in dottrina, la norma dell’art. 146, ultimo comma, L.F. non attiene alla competenza, ma piuttosto è attributiva di uno speciale potere, che viene attribuito al giudice delegato per la piú completa cognizione dei termini di fatto di tutte le problematiche attinenti la tutela cautelare delle ragioni creditorie, che, senza dubbio alcuno, questi è, per la funzione ricoperta e per la previa cognizione della procedura di fallimento, assai piú in grado di svolgere rispetto al giudice designato per il procedimento cautelare;

che l’istanza del curatore non ha valenza, quindi, di vero e proprio impulso di parte, e tanto meno di domanda in senso stretto, ma di mera segnalazione al giudice delegato, il quale esercita d’ufficio il potere cautelare utilizzando la stessa segnalazione del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso, contrariamente da quanto ritenuto da alcuni resistenti (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata dalla difesa di Piero Irti in data 8.6.2005; cfr. pag. 1 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Luigia Irti);

che la norma di cui all’art. 146, ultimo comma, L.F. è stata poi ritenuta conforme al dettato costituzionale, in particolare con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., e quest’ultimo anche nel testo novellato (il “giusto processo”, rispetto al quale dubita della conformità la resistente Luigia Irti: cfr. pag. 2 della memoria difesiva depositata in data 2.7.2005), risultando contemperata, nel rispetto del valore costituzionale del diritto di difesa, la competenza funzionale attribuita al giudice delegato e l’esigenza del giusto processo (cfr. Corte cost. 8.5.1995, n. 148; Corte cost. 31.5.2001, n. 176; Corte cost. 7.5.2002, n. 168);

che, inoltre, e per mera completezza (sebbene nessuna censura al riguardo sia stata formulata dai resistenti), l’art. 146 L.F. è del tutto compatibile con gli artt. 23 e 24 del D. Lgs. 17.1.2003, 5;

che, inoltre, parimenti deve essere disattesa la censura – mossa da tutti i resistenti – secondo cui nella relazione del Curatore mancherebbe l’indicazione analitica delle condotte omissive e/o commissive imputate a ciascun singolo amministratore (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti; pagg. 11 e 13 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 da Stefano Fogliata): infatti, il comando cautelare ex art. 146, ultimo comma, L.F. rientra nella discrezionalità del giudice delegato, e dunque non rileva la mancata allegazione da parte del curatore, che chiede l’autorizzazione alla proposizione dell’azione di responsabilità, degli elementi fatto e di diritto fondanti l’azione stessa e la concessione del sequestro, ed anche ciò non implica lesione del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

che, peraltro, tale censura appare priva di fondatezza considerando – come si dirà di seguito – l’atteggiarsi della responsabilità di ciascun consigliere, almeno in relazione alla condotta omissiva;

[2] che, seppure solo per opportuna completezza, quanto all’accesso al fascicolo del fallimento, è orientamento di questo G.D. che sia esplicitamente consultabile tutto ciò che non sia esplicitamente individuato come riservato; in particolare, in relazione al Fallimento della Irti Lavori S.p.A., che consta ormai di diverse centinaia di istanze al G.D., si è provveduto all'individuazione delle relazioni e delle istanze del Curatore da ritenersi riservate, predisponendo un elenco, a disposizione della Cancelleria (che custodisce il fascicolo e che, dunque, deve rilasciare le copie): infatti, sulla scorta di detto elenco, è stato autorizzato a trarre copia il resistente Iniseo Irti, come documentato in atti;

che, al contempo, però, non è stata rigetta l'istanza di Mauro Irti, poiché con la stessa si è domandato il rilascio di copia di documentazione (verbali di assemblea e del C.d.A.) che non fatto parte del fascicolo del Fallimento, ma sono custoditi presso la sede sociale dal Curatore, a cui dunque andava piuttosto chiesta copia;

[3] che parimenti non può essere accolta l’eccezione di nullità del decreto di sequestro inaudita altera parte, poiché lo stesso sarebbe stato notificato oltre il termine perentorio di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies c.p.c., come dedotto dal resistente Mauro Irti (cfr. pag. 11 e 12 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, in verità, la notificazione del decreto di sequestro deve ritenersi avvenuta nel termine di otto giorni previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c.;

che, come rilevato dalla difesa della Curatela, per valutare l’avvenuto rispetto del termine previsto dall’art. 669-sexies, comma 2, c.p.c. deve considerarsi il momento in cui copia del decreto viene consegnata all’ufficiale giudiziario per la notificazione, non quello in cui lo stesso viene effettivamente ricevuto dal sequestrato; nel caso in esame, dunque, la notificazione si è perfezionata per il sequestrante negli otto giorni a decorrere dal deposito in cancelleria del decreto di sequestro di questo G.D., avvenuto in data 13.5.2005: infatti, l’istanza del Curatore e il decreto del G.D. sono stati consegnati all’ufficiale giudiziario per la notifica in data 20.5.2005, e tanto è sufficiente per il rispetto del termine, anche laddove si riferisca la perentorietà senz’altro ad un termine «non superiore a otto giorni», e non al termine comunque assegnato dal giudice all’istante (cfr. pag. 7 della memoria difensiva del Fallimento depositata in data 2.7.2005);

che a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 447/2002 e n. 28/2004, nonché n. 69/1994 e n. 358/1996, costituisce ormai principio del ordinamento processuale quello secondo il quale il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il notificante deve essere distinta da quello in cui essa si perfeziona per il notificato; in particolare, la regola generale della distinzione dei due momenti va desunta da quella espressamente prevista dall’art. 149 c.p.c. per la notificazione a mezzo posta e, conseguentemente, applicata anche alla notificazione eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario, sicché anche quest’ultima notifica si perfeziona, per il notificante, al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (cfr., Cass. civ., S.U., 26.7.2004, n. 13970; Cass. civ., Sez. L, 28.6.2004, n. 11995); la Suprema Corte ha chiarito che la certezza della data di consegna dell'atto notificando non si può affidare ad una dichiarazione di parte, né ad un'indicazione temporale che, pur contenuta nel documento, sia priva di qualunque riferimento idoneo ad individuare l'autore e ad esplicare la finalità, ma può configurarsi, ad esempio, attraverso la produzione della ricevuta rilasciata ai sensi dell'art. 109 del D.P.R. 15.12.1959, n. 1229 dall'ufficiale giudiziario dell'incarico affidatogli, ovvero dell'attestazione da parte dello stesso pubblico ufficiale circa la data di ricezione dell'atto medesimo (cfr. Cass. civ., Sez. V, 29.9.2005, n. 19508; Cass. civ., Sez. V, 2.9.2004, n. 17714);

che, pertanto, nel caso all’esame di questo Giudicante, il perfezionamento per il notificante è avvenuto il 20.5.2005, come documenta l’attestazione dell’ufficiale giudiziario di ricezione dell’atto per la notificazione (e contestuale liquidazione delle spese di tale attività), apposto in calce a tutte le relate di notifica effettuate in seguito (cfr. atto n. 1 del fascicolo della Curatela);

che, peraltro, e come rilevato dalla stessa Curatela, del pari controversa è, nell’ipotesi di concessione della cautela inaudita altera parte, l’individuazione del dies a quo di decorrenza del termine per la notifica del ricorso e del decreto: infatti, per parte della dottrina si identifica senz’altro con il deposito in cancelleria del decreto, che non dovrebbe essere oggetto di comunicazione al ricorrente, il quale quindi sarebbe onerato di controllare nella cancelleria del giudice l’esito della propria domanda;

che, tuttavia, se tale opinione è comunque criticabile per le conseguenze che ciò determina per il ricorrente nelle ipotesi in cui la concessione della cautela con decreto sia stata domandata dal ricorrente, il quale quindi potrebbe – nella prospettiva della dottrina sopra richiamata – essere onerato dal verificare che il giudice abbia provveduto sulla sua domanda, non può essere assolutamente condivisa nell’ipotesi in esame, in cui una domanda della Curatela non solo in concreto non v’è stata, ma neanche è giuridicamente prospettabile, come si è detto ampiamente sopra; in altri termini, non si vede come possa farsi decorrere dal deposito in cancelleria il termine per la notificazione di un decreto di sequestro che venga adottato dal giudice delegato nell’esercizio di un potere officioso, quale quello di cui all’ultimo comma dell’art. 146 L.F.;

che, conseguentemente, e come ritenuto da altra parte della dottrina, il termine decorre piuttosto dalla comunicazione al sequestrante, o comunque dal momento in cui sia documentato che lo stesso abbia avuto conoscenza del provvedimento in parola; nel caso di specie, dunque, il termine decorre con la presa visione da parte del Curatore, e quindi dal 18.5.2005 (come documentato in atti); a ben considerare, infatti, il termine in parola non può neanche essere fatto decorrere dal 16.5.2005, data in cui l’Avv. Manferoce ha preso visione del provvedimento in parola (quale provvedimento equipollente alla comunicazione: cfr. Cass. civ., Sez. I, 16.7.2004, n. 11319; Cass. civ., Sez. II, 29.4.2002, n. 6221): infatti, il G.D. ha nominato un difensore alla Curatela perché l’assista nella fase di conferma del decreto, mentre il difensore nominato è estraneo (non solo all’adozione del decreto, cui – come si è detto – è, a ben vedere, “estraneo” lo stesso Curatore) all’attività volta a determinare l’efficacia della misura, che è rimessa piuttosto al Curatore successivamente alla comunicazione dell’adozione del provvedimento: vale a dire che la notificazione del decreto ai sequestrati è attività che spetta al Curatore, e non al difensore nominato per la fase di conferma del sequestro, sebbene in concreto possa essere svolta da quest’ultimo (come, appunto, nel caso di specie); anche perché, in realtà, nella struttura propria del procedimento in parola, non ancorato alla domanda di parte, la Curatela non costituisce tecnicamente la parte ricorrente, e quindi ben potrebbe non spiegare alcuna difesa nella fase di conferma, ossia il G.D. potrebbe anche non nominare un difensore per detta fase, che quindi potrebbe non esserci, al contempo però dovendosi provvedere alla notificazione del provvedimento;

[4] che infondato è il rilievo – poiché non di eccezione si tratta, ma essendosi in sede cautelare, di deduzione rilevante ai fini della valutazione del fumus boni iuris – di prescrizione dell’azione di responsabilità, formulata dal resistente Vincenzo Lamparelli (cfr. pagg. 1-3 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005);

che, preliminarmente, è opportuno rilevare che non risponde al vero che la Curatela ha domandato di essere autorizzata ad esercitare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori in carica dal 1997, come invece afferma il Lamparelli (cfr. pag. 3 della memoria difensiva in data 8.6.2005): la lettura della relazione del Curatore in data 11.5.2005 evidenza come l’istanza abbia ad oggetto l’autorizzazione ad agire nei confronti degli amministratori in carica dall’esercizio 2000 in poi, pur riportando il dato che dal 16.10.1997 al 31.7.2002 gli stessi soggetti hanno rivestito la carica di consigliere (cfr. pag. 22 della relazione);

che, ciò opportunamente premesso, in primo luogo, deve rilevarsi – come fa la Curatela (cfr. pag. 9 della memoria difensiva del 1°.7.2005) – che il curatore del fallimento è il soggetto legittimato in via esclusiva anche all’esercizio dell’azione ex artt. 2392 e 2393 c.c., e – si aggiunga – il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 espressamente richiama anche dette disposizioni, sicché appare evidente come nel caso di specie alcuna prescrizione può essersi verificata: ai sensi dell’art. 2941, n. 7, c.c., infatti, il decorso del termine di prescrizione dell’azione sociale di responsabilità è sospeso finché gli amministratori o i sindaci destinatari della pretesa risarcitoria sono in carica; orbene, Vincenzo Lamparelli è cessato dalla carica al tempo della dichiarazione di fallimento del 16.6.2003, sicché non può affermarsi essere maturato detto termine di prescrizione per l’azione di responsabilità nei confronti della Società;

che, in secondo luogo, anche con riferimento all’azione di responsabilità proposta dai creditori sociali, e quindi in caso di fallimento della società dal curatore, il termine di prescrizione quinquennale comincia a decorrere dal momento in cui il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti e può anche essere anteriore alla data dell’apertura della procedura concorsuale; l’onere di provare che l’insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento grava sull’amministratore (o sul sindaco) che eccepisce la prescrizione, e non può essere assolto mediante la generica deduzione, non confortata da utili elementi di fatto, secondo cui l’insufficienza patrimoniale della società fosse evidente al momento della chiusura dell'esercizio 1999, e quindi in un termine anteriore al quinquennio, poiché la perdita integrale del capitale sociale neppure implica la consequenziale perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 18.1.2005, n. 941); in particolare, detta insufficienza può risultare da qualsiasi atto che possa essere conosciuto anche senza verifica diretta sulla contabilità della società, non richiedendosi a tal fine che essa risulti da un bilancio approvato dall’assemblea dei soci (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.2004, n. 20637);

che il resistente Vincenzo Lamparelli si limita a rilevare che il bilancio relativo all’esercizio 1999 evidenziava un’esposizione debitoria per € 71.000.000,00 (cfr. pag. 2 della memoria depositata in data 8.6.2005), laddove la mera sussistenza di debiti (senza peraltro considerare che non necessariamente tutti erano esigibili dai creditori della società entro l’esercizio,ovvero entro l’esercizio successivo) non vuol dire che il patrimonio sociale all’epoca fosse insufficiente al pagamento degli stessi; ed in ogni caso ciò non è stato specificamente allegato;

che, quanto al caso in esame, il Curatore ha dedotto come la Società fallita versasse «in una situazione di grave insolvenza dalla seconda metà del 2001, atteso che già a quell’epoca la stessa non fosse in grado di far fronte con regolarità e con mezzi normali alle proprie obbligazioni»; e, soprattutto, di tale situazione avevano contezza gli amministratori allora in carica, avendo avanzato una proposta transattiva al ceto bancario, in data 20.12.2001, che prevedeva il pagamento del solo 45% dell'esposizione debitoria alla data del 30.9.1997, non garantita, assicurando l'integrale pagamento dei soli crediti privilegiati (cfr. pag. 7 della relazione depositata in data 11.5.2005); ma, in ogni caso, nessun ausilio al rilievo del resistente Lamparelli può essere rinvenuto nei bilanci della società e nei verbali dell'assemblea, non destinati alla pubblica diffusione e comunque inidonei a determinare tra i creditori quella necessaria obiettiva consapevolezza dell'esistenza di uno stato di insufficienza patrimoniale (cfr. Trib. Napoli, 16.4.2004, in Il Fallimento, 2005, p. 689);

[5] che, quanto alla responsabilità nei confronti della società, nel caso all’esame di questo G.D. deve trovare applicazione il testo dell’art. 2392 c.c. in vigore anteriormente alla riforma delle società di capitali operata con il D. Lgs. 17.1.2003, n. 6, in quanto le condotte sono state poste in essere nella vigenza delle disposizioni codicistiche, e non della novella, conformemente a quanto peraltro ritenuto dalla giurisprudenza; e su ciò, peraltro, le parti concordano (cfr. pag. 17 della relazione del Curatore; pag. 24 della memoria di costituzione del Fallimento; pag. 7-8 della memoria difensiva di Fogliata depositata in data 8.6.2005);

[5.1] che, al riguardo, l’art. 2392 c.c. (nel testo vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003) impone a tutti gli amministratori un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, che non viene meno - come si evince dall’espressione “in ogni caso”, non ripetuta nel testo novellato - nell’ipotesi di attribuzioni all’Amministratore delegato, a meno che essi non forniscano la prova che, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, non abbiano potuto esercitare la predetta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio o dell’amministratore unico (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che, pertanto, per fondare la responsabilità dei singoli consiglieri di amministrazione non è necessario che gli stessi abbiano posto in essere «atti dolosamente preordinati alla riduzione del capitale sociale», come ritenuto da taluno (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005 da Piero Irti); né la contestazione di una condotta omissiva, quale quella che viene in rilievo ai sensi dell’art. 2392 c.c., può determinare – con tutta evidenza – la contestazione di fatti specifici, come invece ritengono i resistenti (cfr. pag. 2 della memoria difensiva della difesa di Piero Irti in data 8.6.2005 e pag. 3 della memoria depositata dalla stessa difesa il 1°.7.2005; pag. 6 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005 dalla difesa di Stefano Fogliata);

che, pertanto, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, non determina di per sé alcuna esclusione di responsabilità del singolo consigliere di amministrazione che con la delibera del consiglio del 31.7.2002 all’Amministratore delegato Sandro Maccagni siano stati conferiti «tutti i poteri “nessuno escluso” di ordinaria e straordinaria amministrazione a firma libera ed individuale»; né – in particolare – che questi non relazionasse al Consiglio in occasione delle riunioni, e come pure gli è stato contestato da Luigia Irti durante la riunione del Consiglio del 27.1.2003 (cfr. pag. 5 della memoria della difesa di Lamparelli depositata l’8.6.2005; pag. 6 delle memoria difensiva depositata dalla difesa di Luigia Irti l’8.6.2005), ovvero che nelle sedute del C.d.A. cui avrebbero preso parte non venissero «trattati argomenti di rilievo dal punto di vista patrimoniale» (cfr. pag. 7 delle memoria difensiva in data 8.6.2005 di Luigia Irti), ovvero ancora che l’Amministratore delegato “plenipotenziario” nelle riunione del C.d.A. non facesse mai menzione «di alcuno dei fatti potenzialmente dannosi per la società» (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva di Luigia Irti dell’8.6.2005); in buona sostanza, gli amministratori, per sottrarsi alla responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., non possono addurre a loro giustificazione di non aver effettivamente preso parte all’amministrazione o di non aver avuto conoscenza della gestione (cfr. Trib. Milano, 13.6.1991, in Le Società, 1992, pag. 76);

che, quanto al controllo spiegato dal consigliere Luigia Irti, poi, vero è che la stessa ha consegnato in data 30.12.2002 una raccomandata a mano a Sandro Maccagni «contenente rilievi (del tutto significativi e decisamente pesanti) sulla gestione societaria» (cfr. pag. 6 della memoria difensiva dell’8.6.2005), circostanza di cui dà atto anche il perito del G.I.P., dott. Cosentino (cfr. pag. 51 dell’elaborato depositato nel procedimento penale, e prodotto dalle parti), ma è di tutta evidenza come tale attività - così come l’atto presupposto, ossia la lettera - non sia affatto idonea ad integrare l’esercizio di quei poteri di controllo che l’amministratore ha il potere/dovere di porre in essere, come si è detto sopra; né – e, in verità, in maniera assorbente – la stessa può integrare un dissenso giuridicamente rilevante: il dissenso dell’amministratore, che ai sensi dell’art. 2392, ultimo comma, c.c. consente il suo esonero da responsabilità, deve consistere necessariamente nell’annotazione nel libro delle adunanze e delle delibere del C.d.A. e nella comunicazione scritta al Presidente del Collegio sindacale (cfr. Trib. Sulmona, 21.9.1993, in Le Società, 1994, p. 635);

che, inoltre, non può ritenersi che la condotta diligente richiesta al singolo consigliere, nell’ipotesi di delega, sia «quella di chiedere notizie» (cfr. pag. 11 e 13 delle memoria difensiva di Luigia Irti del 8.6.2005): infatti, il comportamento ostativo dell’Amministratore delegato – cui fa riferimento la giurisprudenza di legittimità – non è certo ravvisabile semplicemente nel non aver fornito notizie sulla gestione sociale; peraltro, la dottrina evidenzia la persistenza dei poteri in capo all'amministrazione anche in caso di delega;

che, in particolare, è appena il caso di rilevare come nessuno dei resistenti deduca una condotta ostativa all’esercizio dei poteri si controllo posta in essere da Iniseo Irti prima, e quindi – dal 31.7.2002 – da Sandro Maccagni; anche in relazione a tale amministratore delegato, a ben vedere, è stato dedotto un comportamento tale da determinare quell’impotenza dell’esercizio dei poteri del singolo consigliere, tale non essendo certo sic et simpliciter quello di non fornire le informazioni richieste;

che Vincenzo Lamparelli, che pure ha contestato che lo stesso avesse l’effettiva possibilità di controllo dell’operato del Maccagni, non ha però dedotto una condotta dell’Amministratore delegato che in concreto avrebbe impedito l’esercizio del controllo; allega piuttosto di aver chiesto a Maccagni «spiegazioni in merito alla ricapitalizzazione della società», per ricevere la tranquillizzante risposta dell’Amministratore delegato «che l’accordo con le banche era stato sostanzialmente raggiunto e che “i soldi erano già disponibili”» (cfr. pag. 5 della memoria difensiva dell’8.6.2005) e in piú occasioni «rassicurazioni sulla corretta gestione e sul buon andamento delle operazioni finanziarie» (cfr. pag. 4 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005), e quindi – in buona sostanza – di essersi fidato dell’Amministratore delegato e, per ciò solo, ammette di aver omesso l’esercizio dei loro poteri/doveri di controllo; e questa è anche la ragione giustificativa dell’omesso controllo dedotta da Stefano Fogliata (cfr. pagg. 14-17 memoria depositata l’8.6.2005), per il quale valgano le stesse considerazioni appena svolte;

che, in particolare, il consigliere di amministrazione Lamparelli non può dedurre che allo stesso nulla si può imputare per essersi fidato delle capacità finanziarie di Sandro Maccagni, laddove anche la famiglia Irti e il Collegio sindacale non hanno sospettato alcunché (cfr. pagg. 16 e 17 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005); così come l’essersi fidati – anche sulla scorta che dello stesso si siano fidati terzi ben piú “attrezzati”, quali (almeno in un primo momento) la CARISPAQ S.p.A. e i rappresentanti degli Enti locali – non è esonero responsabilità da parte di un soggetto che, per espressa previsione di legge, proprio in considerazione degli strumenti di controllo che gli sono riconosciuti, è chiamato a rispondere solidalmente laddove non li eserciti;

che, inoltre, proprio in considerazione dell’atteggiarsi della responsabilità del singolo componente del consiglio di amministrazione, è di tutta evidenza come non possa fondarsi una valutazione di diligente assolvimento del proprio incarico, ai fini dell’esclusione della responsabilità ai sensi dell’art. 2392 c.c., riguardando esclusivamente alla delega “di fatto” allo stesso conferita; conseguentemente, Lamparelli non può dedurre, al fine di escludere la propria responsabilità per l’operato di Maccagni, che la propria posizione andrebbe «analizzata alla luce dell'esatta individuazione delle prestazioni professionali svolte dallo stesso in favore della fallita e fatturate dalla CECAD s.r.l. e non può rientrare nel quadro generale dell'azione di responsabilità» (cfr. pag. … della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

[5.2] che deve comunque escludersi che i componenti del consiglio di amministrazione possano invocare esenzione da responsabilità in riferimento ad addebiti concernenti la redazione del bilancio di esercizio, che costituisce un atto che involge la responsabilità dell’intero organo collegiale (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2005, n. 3032; Cass. civ., Sez. L, 24.6.2004, n. 11751; Cass. civ., Sez. I, 29.8.2003, n. 12696; Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110);

che il Curatore rileva come gli amministratori – tutti gli amministratori che si sono succeduti dall'esercizio 2000 al 16.6.2003 (data di dichiarazione del fallimento) – abbiano posto in essere una «protratta e sistematica violazione delle regole poste in tema di redazione del bilancio di esercizio, con la ingiustificata valutazione di alcune poste», ed in particolare nella violazione dei principi di verità e correttezza, «preordinato al fine di celare lo stato di insolvenza in cui già da tempo si trovava la Irti Lavori s.p.a.» (cfr. pag. 2 della relazione ex art. 33 L.F. depositata in data 11.5.2005);

che, in particolare, gli amministratori in carica negli esercizi dal 2000-2002 devono ritenersi – seppure in sede di cognizione sommaria, propria della presente fase – responsabili senz’altro della «lunga serie di irregolarità contabili e nella protratta e sistematica violazione delle regole di redazione del bilancio di esercizio» evidenziate dalla Curatela nella relazione;

che, in particolare, quanto a Maria Annunziata Chiarandà, dopo aver dedotto di aver votato contro il progetto di bilancio (e, quindi, in assemblea di non avere approvato il bilancio) relativo all’esercizio 1997, per quindi impugnare – si badi, in quanto socio della Irti Lavori S.p.A., e non certo in quanto amministratore – la delibera di approvazione del bilancio con atto di citazione del 24.9.1998, in relazione agli esercizi successivi la stessa deduce, in primo luogo, che «ha progressivamente diradato la propria presenza in consiglio in attesa di veder riconosciuta la correttezza delle censure formulate con la predetta impugnativa del bilancio» (cfr. pag. 3 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), condotta questa che senz’altro non costituisce atto di controllo dell’operato dell’amministratore delegato, nella persona del presidente del consiglio, l’Arch. Iniseo Irti: non si vede come il semplice non prendere parte alla predisposizione del bilancio da sottoporre all’approvazione dell’assemblea valga ad escludere la sussistenza della contestata condotta omissiva; in secondo luogo, la Chiarandà deduce di aver differenziato la propria posizione in seno al consiglio di amministrazione, «a volte astenendosi, altre esprimendo voto contrario», per poi elencare – unitamente ad ipotesi di mancata partecipazione, di cui già si è detto – solo dichiarazioni di astensione (cfr. pagg. 3 e 4 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), che parimenti non possono costituire l’esercizio dei doverosi poteri di controllo in seno all’amministratore;

che anche Luigia Irti, componente del consiglio di amministrazione della Società fallita dal 31.7.2003 al 21.2.2003, non può dunque invocare, ad esonero di responsabilità, di non aver partecipato all’approvazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 e di essersi astenuta durante la riunione del 27.1.2003 del C.d.A. dall’approvazione del progetto di bilancio predisposto (cfr. pag. 6 delle memoria difensiva depositata in data 8.6.2005);

che, conclusivamente sul punto, pur nell’ambito della cognizione sommaria che è propria della presente fase, da quanto dedotto dagli stessi resistenti, ancor prima che da quanto documentato in atti, non può affermarsi che i consiglieri di amministrazione succedutisi nel periodo di tempo indicato dal Curatore abbiano messo in moto qualunque meccanismo necessario che gli avrebbe consentito di provvedere al controllo sulla gestione societaria, e di porre in essere gli adempimenti che questo richieda (cfr. Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238);

[5.3] che nell’esclusione dall’esenzione da responsabilità affermata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla redazione rientra, ad avviso di questo G.D., anche la redazione del bilancio relativa all’operazione di copertura perdite che superino il terzo del capitale sociale: infatti, la relazione degli amministratori sulla situazione patrimoniale della società, prevista dagli artt. 2446 e 2447 c.c., avendo lo scopo di informare dettagliatamente i soci sulla reale situazione, in modo tale da consentire all’assemblea di deliberare consapevolmente, ove ne ricorrano i presupposti, i provvedimenti previsti nelle richiamate disposizioni, deve essere redatta con criteri sostanzialmente uguali a quelli prescritti per il bilancio di esercizio (cfr. Cass. civ., Sez. I, 5.5.1995, n. 4923; Trib. Cosenza, 8.2.1994, in Le Società, 1994, pag. 1071); conseguentemente, la stessa deve ritenersi del tutto equiparabile – sotto il profilo della responsabilità che ne deriva – al bilancio di esercizio che gli amministratori devono redigere ai sensi dell’art. 2423, comma 1, c.c.;

che, conseguentemente, vero è che Stefano Fogliata – come ha dedotto (cfr. pag. 9 della memoria difensiva depositata l’8.6.2005) – non ha approvato alcun bilancio di esercizio della Società fallita, ma la circostanza (in sé, peraltro tecnicamente sbagliata: il consiglio di amministrazione, infatti, non approva il bilancio, ma il progetto di bilancio, che quindi viene sottoposto all’assemblea per l’approvazione), non solo non rileverebbe, come si è detto sopra, ma - in particolare - non può ritenersi corrispondere al vero: infatti, se tale consigliere non ha partecipato a predisporre alcun bilancio di esercizio, alla luce di quanto si è rilevato sopra comunque risponde della redazione della situazione patrimoniale al 31.10.2002 approvato alla riunione del C.d.A. del 12.9.2002, sulla scorta della quale l'assemblea straordinaria dei soci, in seconda convocazione, ha deliberato l'azzeramento del capitale sociale e, quindi, la ricostituzione dello stesso nella misura di € 6.240.000,00 (cfr. doc. n. 33 del fascicolo di parte del Collegio sindacale);

che anche Luigia Irti non può chiamarsi fuori da detta operazione di ricopertura del capitale per perdite, poiché la stessa sarebbe stata deliberata dall’assemblea del 21.3.2003, alla quale la stessa non ha partecipato, «con ciò non assumendo la paternità di quanto il Presidente del CdA Maccagni, ha riferito e suggerito in quella sede» (cfr. pag. 8 della memoria difensiva dell’8.6.2005); la mera non partecipazione alla riunione consiliare non determina, dunque, l'esonero da responsabilità per detto atto che è del C.d.A., e comunque avendo dovuto la stessa attivarsi per far valere l’illegittimità di un atto di cui, invece, vigorosamente disconosce la paternità solo con il presente procedimento;

[5.4] che lo stesso valga con riferimento alla situazione patrimoniale al 31.8.2002, del tutto inveritiera, che presentava addirittura un utile di esercizio di periodo al 31.8.2002 di € 9.220.721,56, che gli amministratori hanno approvato nella riunione del C.d.A. del 12.9.2002, pur trovandosi la società – per loro stessa ammissione – nell’ipotesi di cui all’art. 2446 c.c., nel tentativo di procrastinare l’attività d’impresa;

che, in particolare, è opportuno rilevare come i componenti del consiglio di amministrazione in carica all'epoca non possono dedurre che gli stessi sono stati ispirati dall’intento di “salvataggio della società” (cfr. pag. 2 della memoria difensiva di Iniseo Irti depositata l’8.6.2005) o comunque per «risanare l’azienda» (cfr. pag. 9 della memoria difensiva di Maria Annunziata Chiarandà depositata l’8.6.2005); anzi, come rilevato dalla Curatela, tale comportamento deve essere valutato come una negligente scelta di avere voluto continuare a tutti i costi nella gestione dell’impresa, quando doveva ritenersi ormai non piú reversibile una situazione di crisi patrimoniale e finanziaria e nella consapevolezza dell’assenza e, comunque, del fallimento – sin dal 1999 – di un piano di ristrutturazione aziendale atto a rimuovere od ovviare, almeno parzialmente, alla situazione gravemente deficitaria che si era venuta a creare (cfr. pag. 14 della memoria difensiva depositata in data 2.7.2005);

che, infine, quanto alla sussistenza di un danno in relazione a tale loro condotta, è appena il caso di rilevare che è quantomeno singolare affermare che non vi sarebbe alcuna certezza della sussistenza di un danno per i creditori e per la Società dalla condotta degli amministratori (cfr. pag. 4 e 5 della memoria difesa Piero Irti depositata il 1°.7.2005);

[5.5] che per le violazioni commesse e già evidenziate gli amministratori sono chiamati, altresì, a rispondere nei confronti dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale; infatti, tali condotte hanno determinato l’insufficienza del patrimonio sociale, al cui verificarsi è subordinata l’esperibilità dell’azione di responsabilità da parte dei creditori, e quindi del curatore ai sensi del terzo comma del suddetto articolo, insufficienza che è nozione diversa e piú grave della mera insolvenza, che costituisce il presupposto della dichiarazione di fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 6.10.1981, n. 5341);

che anche delle condotte distrattive compiute nel periodo successivo al 31.7.2002 e poste in essere da Sandro Maccagni, elencate dal Curatore nella propria relazione (cfr. pagg. 10-15 della relazione depositata in data 11.5.2005) – e di cui sono chiamati a rispondere, in solido con lo stesso, anche i componenti del C.d.A. in carica dal 31.7.2002 al momento della dichiarazione di fallimento (o, comunque, fino al momento in cui sono rimasti in carica; ed in tal senso si deve affermare la responsabilità – in sede civile – per le condotte distrattive anche di Luigia Irti, che pure si duole di tale imputazione: cfr. pag. 12 della memoria difensiva dell’8.6.2005), si rileva che le condotte distrattive evidenziate dal Curatore nella propria relazione hanno trovato conferma nella perizia svolta nel procedimento penale, ed in particolare in sede di incidente probatorio (cfr. doc. n. 1 del fascicolo del resistente Paolo Irti);

che, in sintesi, del tutto correttamente nella relazione depositata l’11.5.2005 il Curatore del Fallimento della Irti Lavori S.p.A. ha addebitato a tutti i consiglieri in carica le condotte distrattive poste in essere da Maccagni (cfr. pag. 24 della relazione depositata in data 11.5.2005); infatti, quello che si domanda al singolo consigliere non è certo che «seguisse tutti i giorni l’A.D. per controllare gli assegni che emetteva» (cfr. pag. 9 delle memoria difensiva del 8.6.2005 di Luigia Irti), ma che esercitasse i poteri di controllo in ordine alla gestione di cui si è detto sopra;

[5.6.] che, inoltre, tutti i componenti del consiglio di amministrazione della Società fallita sono responsabili in solido per la violazione di detto obbligo di vigilanza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 24.3.1998, n. 3110; Cass. civ., Sez. I, 23.6.1998, n. 6238; ); conseguentemente, priva di pregio è la richiesta graduazione dell’importo in relazione al quale è stato concesso il sequestro con riferimento alla condotta tenuta da ciascun consigliere, considerando piú benevolmente le posizioni ritenute “marginali”;

che, inoltre, dei danni arrecati alla società dai precedenti amministratori, per aver occultato il dissesto della società una volta che del dissesto stesso erano venuto a conoscenza, risponde anche il C.d.A. subentrato il 31.7.2002, avendo i nuovi amministratori omesso di eliminare gli illeciti commessi da chi li ha preceduti o di attenuare le conseguenze dannose derivatene (cfr. Cass. civ., Sez. I, 27.2.2002, n. 2906; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1998 n. 3483); e così Stefano Fogliata non può certo invocare la esenzione di responsabilità per le condotte poste in essere dai precedenti amministratori (cfr. pag. 10 e pag. 26 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005), e tanto meno - in considerazione del dedotto vincolo solidale - può ritenersi responsabile esclusivamente del danno che egli stesso avrebbe provocato;

che, inoltre, non è possibile ritenere che del danno verificatosi nel corso di una determinata gestione della stessa non possa essere chiamato a rispondere l’amministratore che sia cessato dalla carica prima della data di chiusura dell’esercizio (cfr. pag. 3 della memoria difensiva di Piero Irti depositata l'8.6.2005): infatti, è di tutta evidenza come il danno non si realizzi al momento della chiusura dell’esercizio, piuttosto essendo il bilancio relativo a detto esercizio (e che, quindi, normalmente va dal 1° gennaio al 31 dicembre) ad evidenziare contabilmente ad una determinata data detta perdita;

[6] che anche in relazione ai componenti del collegio sindacale trova applicazione ratione temporis il testo dell’art. 2407 c.c. vigente prima delle rilevanti modifiche introdotte dal D. Lgs. n. 6/2003;

[6.1] che, ai fini della responsabilità solidale dei sindaci di una società per azioni con gli amministratori, ex art. 2407, comma 2, c.c., per i fatti e per le omissioni di questi ultimi (cfr. anche Cass. civ., Sez. I, 15.5.1991, n. 5444), quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità con gli obblighi della loro carica, l’obbligo di vigilanza dei sindaci non è limitato allo svolgimento dei compiti di mero controllo contabile e formale, ma si estende anche al contenuto della gestione, atteso che la previsione della prima parte del primo comma dell’art. 2403 c.c. va combinata con quelle del terzo e quarto comma del medesimo articolo, che conferiscono al collegio sindacale il potere – che è anche un dovere da esercitare in relazione alle specifiche situazioni – di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o su determinati fatti (cfr. Cass. civ., Sez. I, 7.5.1993, n. 5263);

che, come i componenti del collegio sindacale hanno assai puntualmente dedotto, gli stessi hanno senz’altro assolto all’obbligo di richiedere – costantemente, nel corso della loro durata in carica –agli amministratori, e all’Amministratore delegato Sandro Maccagni in particolare, notizie in relazione alla gestione sociale, sebbene – in verità – il loro controllo si sia incentrato prevalentemente su questioni inerenti al bilancio, e non anche - come sarebbe stato opportuno - alla gestione sociale (sebbene questa seconda non sia certo indifferente con riferimento alle prime);

che, tuttavia, la responsabilità del collegio sindacale non consegue esclusivamente all’espletamento a tale attività di controllo;

[6.2] che, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la mancata impugnazione da parte dei sindaci di una società di capitali delle delibera dell’assemblea, che approva un bilancio di esercizio redatto in violazione dei principi stabiliti dal codice civile, può fondare la loro responsabilità ex art. 2407 c.c., anche se essi abbiano assunto la carica soltanto in occasione della sua approvazione; il documento contabile è, infatti, destinato a spiegare i suoi effetti anche sull’esercizio successivo, mentre il controllo sull’osservanza della legge, al quale essi sono tenuti ex art. 2403 c.c., ha ad oggetto anche la legittimità delle delibere assembleari, specie se adottate all’esito di un procedimento nel quale si inseriscono precedenti atti degli amministratori, essendo peraltro espressamente attribuita ai sindaci la legittimazione all’impugnazione delle delibere assembleari (art. 2377 c.c.) (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, sebbene il collegio sindacale invitò l’assemblea dei soci a non approvare il bilancio relativo all’esercizio 2001, ma – come gli stessi sindaci rilevano – l’assemblea dei soci dell’8.7.2002 ha approvato il bilancio, nonostante detto parere contrario; l’organo di controllo, però, non ha - doverosamente ed opportunamente - impugnato detta deliberazione assembleare; nel corso di detta assemblea ha dedotto l’intenzione di provvedere a breve alla convocazione dell’assemblea per gli adempimenti di cui all’art. 2446, comma 1, c.c., ed è questa la “famigerata” assemblea del 31.7.2002, che vede l’ingresso nel consiglio di amministrazione di Sandro Maccagni – che aveva già definito i propri accordi con la proprietà, in rappresentanza della quale siede in consiglio Luigia Irti – e i suoi "collaboratori" Raoul Pozzi, Stefano Fogliata e Vincenzo Lamparelli, ed il primo viene nominato Amministratore delegato; tale assemblea, però, come deducono i sindaci stessi, non delibera senz’altro di provvedere alla riduzione e ricostituzione del capitale sociale, ma si è limitata a prendere atto di detta necessità e del raggiungimento dell’accordo con il ceto bancario, ad eccezione della B.N.L. S.p.A., nei termini in cui ha riferito Maccagni;

che, se sussiste l’obbligo di impugnazione delle delibere assembleari potenzialmente dannose per i soci, a maggior ragione deve rilevarsi come i sindaci avrebbero dovuto impugnare tempestivamente la deliberazione di aumento del capitale sociale assunta all’assemblea del 21.2.2003, con cui è stato deliberato l’aumento del capitale sociale senza che il socio Maccagni provvedesse senz’altro al versamento contestuale: infatti, il collegio sindacale si è limitato a svolgere delle osservazioni a verbale circa detta necessità di sottoscrizione contestuale, mostrando così di essere consapevole dell’illegittimità di tale condotta, ma una volta che la stessa è stata disattesa – conformemente al parere espresso dal notaio verbalizzante – dall'assemblea dei soci, non ha provveduto senz’altro ad impugnare delibera, ma in data 29.5.2003 ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di L’Aquila denunciando la millantata e falsificata copertura delle perdite e la ricostruzione del capitale sociale successivamente accertata da detto organo (cfr. doc. n. 37 del fascicolo di parte), per poi rimettere una relazione al Tribunale soltanto il giorno in cui è stato dichiarato il fallimento della Società, pur essendo a conoscenza della pendenza già da qualche mese di numerose istanze di fallimento, tra cui quelle delle banche;

che è di tutta evidenza, dunque, come l’organo di controllo, pur avendo diligentemente ed in maniera penetrante esercitato i propri poteri di controllo della gestione, non ha invece esercitato quelli di controllo del rispetto delle legge (e dell’atto costitutivo), a tutela anche dei creditori sociali: quello che agli stessi si contesta da parte della Curatela non è, dunque, l’insuccesso del loro controllo, ma la mancata attivazione di ogni potere agli stessi a tal fine, quale ad esempio quello dell’impugnazione di detta delibera;

che, peraltro, l’esposto al Procuratore della Repubblica del 29.5.2003 – in prossimità dell’udienza ex art. 5 L.F. – appare quanto meno tardivo, se si considera che con sentenza pubblicata il 16.6.2003 il Tribunale di L’Aquila ha dichiarato il fallimento della Irti Lavori S.p.A. sulla scorta di istanze depositate già gli ultimi mesi del 2002;

che, poi, la difesa del collegio sindacale appare contraddittoria laddove, dopo aver puntualmente dedotto tutte le critiche mosse alla gestione sociale, volta a infirmare le bontà delle decisioni assunte, deduce quindi che «la scelta di procrastinare il ricorso a procedure concorsuali e di tentare un progressivo ritorno in bonis, rappresentava una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda», che avrebbe così giustificato la loro condotta di attesa e verifica degli adempimenti dell’amministratore delegato, anche a tutela dei creditori sociali (e, principalmente dei lavoratori) (cfr. pagg. 27-28 delle memoria difensiva depositata l’8.6.2005); in altri termini, dopo aver riferito di tutti i momenti in cui gli stessi avrebbero contestato la bontà ed attendibilità delle scelte gestionali, oltre che delle rappresentazioni contabili, affermano che però la loro condotta di soprassedere da atti "estremi", che avrebbero determinato la cessazione dell'attività della Irti Lavori S.p.A., è stata motivata dalla circostanza che quella che si prospettava ai loro occhi – fino al 29.5.2003, deve intendersi – era «una prospettiva seria e ragionevole in base ad un altrettanto serio e ragionevole programma di recupero dell’azienda»;

che, quanto all’assemblea al 12.9.2002, che ha approvato una situazione patrimoniale al 31.8.2002 che rappresenta un utile di esercizio di € 9.220.721,56, la stessa non può dirsi in veritiera – come, invece, affermano i sindaci (cfr. pag. 20 della memoria difensiva depositata in data 1°.7.2005): vero è, infatti, che «i titoli relativi alla riduzione per transazione dei debiti di natura bancaria erano ben esistenti, come sopra meglio trascritti e riferiti a un impegno di esecuzione molto prossimo, da definire entro il 7 novembre», tuttavia – come rileva lo stesso collegio sindacale – l’accordo non era stata eseguito, sicché non poteva essere senz’altro inserito in bilancio come se fosse stato eseguito, e quindi come se senz’altro le perdite ricoperte e la nuova finanza conseguente a detto accordo fosse senz’altro esistenti; d’altro canto, e – come correttamente dedotto dalla difesa della Curatela (cfr. pag. 11 della memoria di costituzione dell’8.6.2005) – di certo dagli atti (gli stessi che all’epoca erano a disposizione dei sindaci) si evince chiaramente che la Irti Lavori S.p.A. non sarebbe stata in grado di adempiere ad alcunché; e certo non può costituire un esonero di responsabilità per i sindaci - come per i consiglieri di amministrazione - il consenso prestato in quella sede dal rappresentante della CARISPAQ S.p.A., quale capofila del pool di banche;

che, inoltre, come correttamente rilevato dalla Curatela (cfr. pag. 36 della memoria di costituzione) i gravi atti di mala gestio degli amministratori causativi di danno che i sindaci avrebbero dovuto rilevare se avessero agito con diligenza e professionalità e l’evidente azzardo nella prosecuzione della gestione dell’attività d’impresa avrebbero dovuto – al di là dei profili considerati – indurre i sindaci a denunciare la condotta degli amministratori, in quanto gravemente irregolare, al P.M. perché sollecitasse il Tribunale a norma dell’art. 2409 c.c. od anche far aprire d’ufficio un procedimento per la dichiarazione di fallimento ovvero, infine, sporgere denunzia ex art. 331 c.p.p. in presenza di fatti penalmente rilevanti (cfr., in questi termini, Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252 e Trib. Messina, 12.11.1999, in Il Fallimento, 2000, pag. 1279).

[6.3] che il diverso rilievo causale di quanti, amministratori e sindaci, abbiano concorso alla causazione del danno, inteso come insufficienza patrimoniale della società, assume poi rilievo nei soli rapporti interni tra coobbligati (ai fini dell’eventuale esercizio dell’azione di regresso), e non anche nei rapporti esterni che legano gli autori dell’illecito al danneggiato (società, creditori sociali, singoli soci e terzi), giusto il principio generale di solidarietà tra coobbligati di cui all’art. 2055, comma 1, c.c. (sancito espressamente in materia di responsabilità extracontrattuale, ma applicabile, altresì, in tema di responsabilità contrattuale, quand’anche il danno derivi dall’inadempimento di contratti diversi, quand’anche la responsabilità abbia, per alcuno dei danneggianti, natura contrattuale, e, per altri, natura extracontrattuale), ribadito, con specifico riguardo ai sindaci della società, dall’art. 2407, comma 2, c.c., che esclude la legittimità di una commisurazione percentuale della responsabilità dei sindaci all’entità del loro concorso nella causazione dell’evento dannoso (cfr. Cass. civ., Sez. I, 28.5.1998, n. 5287);

che, inoltre, la responsabilità dei sindaci prevista dall’art. 2407, comma 2, c.c. ha carattere solidale anche nei rapporti fra i sindaci stessi;

[7] che, in tema di responsabilità nei confronti degli organi sociali, quando – come nel caso in esame, a parte le condotte di distrazione imputabili solo ad alcuni degli amministratori – il fondamentale addebito loro imputabile si individui nel dovere di intraprendere nuove operazioni, in caso di fallimento della società, il danno, in linea di principio, non può automaticamente identificarsi nella differenza fra attivo e passivo fallimentare, dovendo trovare applicazione le regole sul nesso di causalità materiale; tuttavia, il danno può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo, in mancanza di prova del maggior pregiudizio, se per fatto imputabile agli organi sociali si sia venuto a verificare il dissesto economico della società e il conseguente assoggettamento a fallimento (cfr. Cass. civ., Sez. I, 17.9.1997, n. 9252; Cass. civ., Sez. I, 30.7.1980, n. 4891; Cass. civ., Sez. I, 4.4.1977, n. 1281);

che, anche nel caso dell’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti sindaci di una società di capitali sottoposta a procedura concorsuale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il danno loro imputabile non può essere identificato nella differenza tra attivo e passivo accertato in sede concorsuale, sia in quanto lo sbilancio patrimoniale può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell’organo di controllo, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il criterio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima e il danno; e tuttavia, il criterio ancorato alla differenza tra attivo e passivo può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento dei sindaci, ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei sindaci, nonché, nel caso in cui la condotta illegittima non sia stata temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto (cfr. Cass. civ., Sez. I, 8.2.2005, n. 2538);

che, pertanto, sebbene debbano ritenersi fondate - in linea di principio - le censure mosse dai resistenti al criterio di determinazione del danno costituito dalla sbilancio tra attivo e passivo fallimentare (cfr. pagg. 19-30 della memoria difensiva depositata in data 8.6.2005 dalla difesa di Fogliata; pagg. 10-11 della memoria difensiva di Mauro Irti depositata l'8.6.2005; pagg. 27-28 della memoria difensiva depositata dalla difesa dei sindaci in data 1°.7.2005), tuttavia non può ritenersi che le stesse incidano sulla valutazione della sussistenza dei presupposti per l'adozione della cautela, né - a ben vedere - neanche sulla quantificazione nelle presente sede del danno;

che, infatti, anche se le condotte omissive e – seppure soltanto per alcuni degli amministratori, come si è detto sopra, e quindi per i sindaci che rispondono in solido con gli stessi – commissive risultano individuate nella relazione del Curatore, ed anche se sia stata rinvenuta la contabilità sociale (tanto che è stato possibile al Curatore – e, in sede di procedimento penale, al dott. Casentino – di individuare una serie di irregolarità), poiché l'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 146, ultimo comma, L.F. deve essere assunto sulla base di una cognizione sommaria, questo Giudice ritiene possibile adottare il criterio dello sbilancio tra attivo e passivo anche in sede di conferma del sequestro già disposto con decreto inaudita altera parte ritenuto che la giurisprudenza (anche di legittimità) afferma che il criterio basato sulla differenza tra attivo e passivo può comunque essere utilizzato - pur ricorrendone i presupposti - per una liquidazione in via equitativa del danno; nell’instauranda fase di merito sarà tuttavia possibile ogni diversa quantificazione del danno che potrà tenere conto sia della riclassificazione dei dati di bilancio alla luce delle irregolarità riscontrate sia di un’attività di liquidazione dell’attivo fallimentare ancora in corso, ma anche di uno stato passivo influenzato (in difetto) dalla pendenza di giudizi di opposizione ex art. 98 L.F. e da domande di insinuazione passiva, in entrambi i casi in numero non irrilevante e per importi significativi;

che, in particolare, detto criterio può essere utilizzato - sempre nella presente fase a cognizione sommaria - anche in relazione ai componenti del collegio sindacale in carica nell’epoca immediatamente precedente alla dichiarazione di fallimento e fino alla data della stessa, proprio sulla scorta di quella giurisprudenza di legittimità che gli stessi invocano per contestare la quantificazione del danno operata nei loro confronti;

che, peraltro, è opportuno rilevare come il criterio della differenza tra l'attivo e il passivo fallimentare può persino risultare penalizzante per la Curatela, come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., Sez. I, 22.10.1998, n. 10488);

che, inoltre, anche a voler considerare esclusivamente gli esercizi in relazione ai quali il Curatore ha ritenuto di individuare una responsabilità degli amministratori e dei sindaci, già solo nel periodo 2000-2002 la Irti Lavori S.p.A. ha subito perdite di esercizio complessivamente per oltre 22 milioni di euro (cfr. pag. 6 memoria di costituzione del Fallimento depositata in data 8.6.2005, sulla scorta delle risultanze della documentazione contabile a disposizione del Fallimento);

che è invece opportuno rilevare come, considerata la responsabilità solidale degli amministratori di ciascun consiglio, e quindi di quelli facenti parte di un consiglio con i precedenti, il criterio di quantificazione del danno – con il chiarimento detto sopra – non è tale da incidere diversamente sulla responsabilità di ciascuno, diversamente da quanto ritenuto dagli ultimi consiglieri in carica;

che, tuttavia, i componenti del consiglio di amministrazione in carica fino al 31.7.2002 non possono essere chiamati a rispondere delle condotte distrattive, o comunque di depauperamento del patrimonio sociale, le quali - secondo quanto dedotto dal Curatore ed accertato anche dal dott. Cosentino in sede penale - sono state poste in essere solo successivamente a tale data; conseguentemente, il danno conseguente a dette condotte distrattive (contestate anche in sede penale) e, piú in generale, per gli atti di depauperamento del patrimonio sociale, può essere imputato esclusivamente ai consiglieri - e, in solido con questi, ai sindaci - in carica successivamente a detta data, vale a dire: Vincenzo Lamparelli, Stefano Fogliata, Raoul Maria Pozzi, Luigia Irti, Eugenio Arnone, Francesco Paolo Ferri E Innocenzo Chiacchio; pertanto, se quanto a detti amministratori il sequestro deve essere confermato fino alla concorrenza della somma come determinata con il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005, per gli amministratori in carica fino al 31.7.2002 lo stesso deve essere ridotto fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00: ciò alla luce di una stima - necessariamente sommaria - del danno derivante dalle condotte distrattive e dagli atti di depauperamento del patrimonio sociale posti in essere dall'ultimo C.d.A., come indicate dal Curatore e come accertato in sede di incidente probatorio nel corso del procedimento;

che, conseguentemente, limitatamente agli amministratori Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI, Maria Annunziata CHIARANDA’ deve essere modificato il decreto in data 13.5.2005, riducendo fino alla concorrenza di €. 25.000.000,00 il sequestro già disposto;

[8] che, quanto alla sussistenza del requisito del periculum in mora, in primo luogo si deve rilevare che è principio pacifico in giurisprudenza che lo stesso può essere desunto sia da elementi obiettivi, concernenti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, desumibili da un comportamento del debitore tale da lasciar presumere che egli, al fine di sottrarsi all’adempimento, ponga in essere atti tali da rendere verosimile l’eventuale deprezzamento del suo patrimonio, sottraendolo ad esecuzione forzata; i due criteri, altrettanto pacificamente, non sono ritenuti concorrenti tra di loro, essendo sufficiente che sussista, alternativamente, uno dei due presupposti per l’adozione del provvedimento (cfr., in tal senso, dalla ormai risalente sentenza Cass. civ., Sez. III, 10.9.1986, n. 5541, Cass. civ., Sez. III, 13.2.2002, n. 2081; Cass. civ., Sez. II, 26.2.1998, n. 2139 e Cass. civ., Sez. II, 17.6.1998, n. 6042);

che, conseguentemente, priva di pregio appare la considerazione di Piero Irti secondo cui la sussistenza del periculum sarebbe da escludere in considerazione del lasso di tempo (poco meno di due anni) trascorso dalla dichiarazione di fallimento (cfr. pag. 2 della memoria difensiva depositata l'8.6.2005);

che, nella fattispecie all’esame di questo G.D., l’inadeguatezza del patrimonio di amministratori e sindaci è di tutta evidenza rispetto all’ammontare del credito che si vuole azionare in responsabilità, risultando dalle visure effettuate che il patrimonio immobiliare di amministratori e sindaci è di gran lunga inferiore rispetto all’ammontare del danno in ipotesi patito dalla Irti Lavori S.p.A. (cfr. documentazione nel fascicolo di parte del Fallimento);

che, pertanto, prive di pregio appaiono le deduzioni al riguardo delle difese dei resistenti (cfr. pag. 31 della memoria depositata dalla difesa di Fogliata in data 8.6.2005);

[9] che, quanto alle spese del presente procedimento, questo Tribunale si è già espresso nel senso che al procedimento cautelare ex art. 146, comma 3, L.F. deve ritenersi applicabile la disciplina dettata dal D. Lgs. 17.1.2003, n. 5 anche relativamente ai procedimenti cautelari ante causam posti in posizione di strumentalità rispetto alle stesse, rientrando nell’ambito di applicazione del medesimo «le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi (…) delle società», ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) di detto Decreto, e quindi anche dal curatore ai sensi dell’art. 146 L.F.; ai sensi dell’art. 23, comma 2, del D. Lgs. n. 5/2003, dunque, nell’ipotesi del sequestro previsto dall’art. 146 L.F., pur non avendo il provvedimento cautelare natura anticipatoria, il giudice deve provvedere «in ogni caso» alle spese del procedimento a norma degli artt. 91 ss. c.p.c., anche, quindi, in caso di accoglimento della domanda cautelare (cfr. Trib L’Aquila, ord. 11.8.2004, cit., peraltro, espressamente condivisa sul punto dal Collegio in sede di reclamo);

che, sebbene la cautela ex art. 146 L.F., strumentale all'esercizio dell'azione di responsabilità, materia quest'ultima ricompresa nella lett. a) del comma 1 dell'art. 1 del D. Lgs. 17.1.2003, n. 5, debba essere assoggettata al nuovo rito previsto dall'art. 23 di detto Decreto, e malgrado debba affermasi che la disciplina dell'art. 669-septies, comma 2, c.p.c. debba ritenersi sostituita da detto art. 23 non solo in relazione alle misure cautelari anticipatorie di cui al comma 1 di tale disposizione, tuttavia - ed in ciò mutando il proprio precedente orientamento - può dubitarsi della compatibilità tra la disciplina dell'art. 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e il procedimento cautelare disegnato dall'art. 146, ultimo comma, L.F.;

che, infatti, appare difficile conciliare la condanna alle spese con l'esercizio d'ufficio del potere cautelare in esame, che - come si è detto sopra - utilizza la "segnalazione" del curatore quale atto a valenza meramente interna alla procedura fallimentare, insuscettibile di delimitare ovvero di condizionare il potere del giudice delegato stesso;

che, come rilevato da acuta dottrina, laddove venisse revocato il provvedimento adottato a seguito dell'attivazione ufficiosa del procedimento da parte dal giudice delegato - e, in verità solo in maniera piú evidente, laddove la "segnalazione" dell'opportunità della misura cautelare neanche sia formulata dal Curatore, come appunto nel caso in esame (cfr. relazione del Curatore in data 11.5.2005) - non appare possibile ritenere che le spese possano essere poste a carico della Curatela, la cui istanza ha ad oggetto la richiesta di autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità; conseguentemente, se la cautela viene revocata, le spese dei resistenti devono dichiararsi irripetibili, e laddove venga confermata (o modificata), le spese del procedimento rimarranno a carico del Fallimento, il quale deve ritenersi tragga senz'altro un beneficio, ancorando la disposizione del comma 3 dell'art. 146 L.F. alla valutazione di opportunità da parte del giudice delegato;

che, conseguentemente, non può essere disposto il rimborso delle spese del presente procedimento alla Curatela, come pure richiesto;



P.Q.M.



Visti gli artt. 669-sexies c.p.c. e 23 del D. Lgs. n. 5/2003 e

- conferma il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Vincenzo LAMPARELLI, Stefano FOGLIATA, Raoul Maria POZZI, Luigia IRTI, Eugenio ARNONE, Francesco Paolo FERRI e Innocenzo CHIACCHIO fino alla concorrenza di € 30.000.000,00 (trentamilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A. disposto con decreto inaudita altera parte in data 13.5.2005;

- modifica il decreto di questo G.D. in data 13.5.2005 e, per l'effetto, dispone il sequestro conservativo di beni immobili, mobili, e dei crediti vantati nei confronti di terzi di cui siano titolari Iniseo IRTI, Paolo IRTI, Mauro IRTI, Piero IRTI e Maria Annunziata CHIARANDA’ fino alla concorrenza di € 25.000.000,00 (venticinquemilioni/00) in favore del Fallimento della IRTI LAVORI S.p.A.;

- nulla per le spese.



SI COMUNICHI



L’Aquila, 27.7.2005


Mario Montanaro